Salve a tutti, sono tornata :D
Spero che abbiate passato un bel Capodanno e che questo 2015 sia iniziato al meglio.
Per le vacanze, la mia professoressa di italiano ci ha assegnato la lettura di La luna e i falò di Cesare Pavese e credo che sia bello condividerne con voi la recensione poiché mi dedico quasi esclusivamente a libri di recente uscita e non esattamente di questo genere. Ieri ho anche finito di leggere Io sono di legno di Giulia Carcasi e cominciato Tutto torna, della stessa autrice. Presto quindi recensirò anche quello! Per questi primi giorni del 2015 ho altre novità da proporvi e non vedo l’ora!!
Intanto vi lascio con la mia recensione :)
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Titolo: La luna e i falò
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Autore: Cesare Pavese
- Casa Editrice: Einaudi
- Data pubblicazione: 1950
- Pagine: 241
- Genere: Autobiografico, Realistico, Drammatico
- Trama: Anguilla, all’indomani della Liberazione torna al suo paese delle Langhe dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell’amico Nuto, ripercorre i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. Storia semplice e lirica insieme, La luna e i falò recupera i temi civili della guerra partigiana, la cospirazione antifascista, la lotta di liberazione, e li lega a problematiche private, l’amicizia, la sensualità, la morte, in un intreccio drammatico che conferma la totale inappartenenza dell’individuo rispetto al mondo.
Opinione personale:
Anguilla è un bastardo. Un orfano trovato ad Alba e lasciato in custodia dall’ospedale di Alessandria alla famiglia di Virgilia e Padrino. Il suo prezzo era di cinque lire al mese. Anguilla non è neanche il suo vero nome. È un soprannome che viene rivelato a metà del libro. Come a sottolineare che lui un’identità ben definita non ce l’ha; non ha un posto in cui si sente a casa, un posto che spenga la sua voglia di scappare a favore invece di una pace interiore.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
I ricordi di Anguilla di ritorno dall’America scorrono quasi in disordine, senza un filo logico, suscitati da un particolare o da un discorso. E così dopo aver conosciuto Cinto, che vive nella stessa cascina in cui lui è cresciuto, si abbandona ai ricordi della sua infanzia e di tutti i luoghi e le abitudini. E dalla festa in paese comincia a raccontare di quello stesso giorno di tanti anni prima; dai paesaggi scaturiscono ricordi e dagli avvenimenti riflessioni.
Parla prima di quel giorno in America e poi racconta di Silvia, Irene e Santina, della fattoria della Mora, dove era andato a lavorare; e poi parla di Genova; e poi di Nuto. Nuto è il suo amico di infanzia e adolescenza, che ritroverà anche allora, a quarant’anni. Era “quello più grande”, il musico che girando tra i paesi sa più cose di tutti, ne capisce più di Anguilla e può consigliarlo e metterlo in guardia. Ma ora no. Ora Anguilla è sorpreso del fatto che Nuto non gli sembri poi tanto più furbo di lui, è sorpreso di vederlo come un coetaneo e di parlarci e discuterci da pari.
-Sono libri,- disse Nuto – leggici dentro finché puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.
Il tono dell’intera narrazione è quello della nostalgia, del bilico, tra voglia di fuggire, di cambiare la propria condizione, e voglia di restare, di avere una casa, comprare una terra. Sa essere difficile questo libro. Complesso nel linguaggio e nei collegamenti. Ma poi, dopo poco, il messaggio risulta semplice e ricorrente, un contrasto importante ma anche pesante.
Io vivo in un paese e penso di poter capire parte della contraddizione: il senso di casa, di conosciuto, e la consapevolezza di restare intrappolati se si indugia troppo, di non spiegare mai del tutto le ali, perché le possibilità sono limitate. Con Anguilla la contraddizione si fa ancora più difficile, perché si aggiunge il problema che lui non lo avverte il senso di casa, di appartenenza. E così fugge. Va in America, per necessità di fuggire, ma sapendo che lo avrebbe fatto comunque. Va in America e si sente bastardo in una terra in cui lo sono tutti, nomadi e senza famiglia. Quella non è casa sua. E se gli dà possibilità, spazio per le sue ali, d’altro canto lo fa sentire ancora più alieno.
Un pellegrinaggio continuo dell’anima. Un tornare per partire di nuovo; tornare per non trovare niente. Nessuno, perché non c’è quasi più nessuno. Perché nel frattempo c’è stata la guerra, il fascismo, i partigiani, e i morti nei boschi si trovano ancora oggi. E in paese tutti parlano, hanno da dire la loro.
Non voglio dilungarmi ad analizzare ogni aspetto, perché ve l’ho detto, il messaggio, pur passando attraverso mille espedienti e episodi, è uno solo: quel contrasto ingombrante, che confonde il lettore tanto quanto il protagonista. Lo stesso titolo richiama alle credenze popolari, contadine, contrapposte allo scetticismo di chi quelle cose non le vive.
Mi è piaciuto questo libro. Ma mettiamola su questo piano: dietro alla complessità apparente, almeno per me, si nascondeva una semplicità disarmante. Vera, ma disarmante. L’ho letto volentieri, ma probabilmente non lo rileggerei. Sa essere angosciante questo libro.
Eppure, disse lui, non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace.
-Questa è nuova, – dissi – allora credi anche nella luna?
-La luna,- disse Nuto – bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.
Il mio voto:
L’autore:
Cesare Pavese: Studia a Torino dove si laurea. Sin dagli anni Venti traduce opere dei maggiori autori americani. Viene arrestato, processato e inviato al confino a Brancaleone Calabro per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà . Tornato a Torino inizia a collaborare con la casa editrice Einaudi per la realizzazione della rivista «La Cultura», che dirige. Nel 1945-46 dirige la sede romana della medesima casa editrice. Dopo la Liberazione, si iscrive al partito Comunista e pubblica le sue opere di maggior successo. Viene trovato morto, per una dose eccessiva di sonnifero, il 27 agosto 1950. Tra le sue opere ricordiamo: Paesi tuoi, Feria d’agosto, Il compagno, Dialoghi con Leucò, La casa in collina, La luna e i falò, Il mestiere di vivere, La bella estate, Tra donne sole, Vita attraverso le lettere.