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[Recensione] La penna d’oro di Carlo Sgorlon

Creato il 29 febbraio 2012 da Queenseptienna @queenseptienna

[Recensione] La penna d’oro di Carlo SgorlonTitolo: La penna d’oro
Autore: Carlo Sgorlon
Editore: Morganti Editore
Anno: 2008
ISBN:  9788895916040
Pagine: 224
Prezzo: €15,00
Voto: [Recensione] La penna d’oro di Carlo Sgorlon

Contenuto:
E’ un’autore che vale la pena di conoscere. Io ho avuto la fortuna di incontrarlo quando, nella scuola media di un comune del trevigiano, ha presentato il romanzo La tredicesima notte, una decina d’anni fa. Ricordo la voce profondissima e la sua passione nel narrare storie. Lo leggo da allora.

Carlo Sgorlon (1930-2009) vive le conseguenze della grande depressione che stringe il mondo occidentale nella sua morsa. La vita famigliare, pur dominata dalla precarietà e dalla disoccupazione, tira avanti in dignitosa povertà: manca di tutto e tuttavia non fa difetto nulla.
A dispetto della crisi compare una penna d’oro per il battesimo di Carlo, reliquia americana scampata alla depressione, traccia del suo destino di scrittore. Sarà Carlo a scrivere, dalla penna non uscirà un solo getto d’inchiostro, perduta chissà dove, tra un trasloco e l’altro.


Carlo è un solitario, stenta nelle amicizie e a entrare nei giri degli altri. Non ama la storia e le sue ingiustizie, a questa preferisce le favole. E’ grazie a esse che emerge ciò che conosce da sempre: gli archetipi, tracce indelebili delle cose eterne assopite, pronte a riaffiorare. L’eros è una di queste: un che di privato, intimo e sacrale, dove agiscono sentimenti e istinti, aspetti universali del mondo e della sua essenza misteriosa. Con esso darà forma, nei romanzi, a figure femminili, a creature indomabili e indocili e però materne e protettrici, l’esatto contrario delle fortune degli uomini (tra tutti il romanzo La tredicesima notte, 2001).
Della storia, si potrebbe dire, gli uomini sono gli autori, ma ne diventano anche succubi, condotti ovunque essa,  non loro, desideri. La favola invece ricompone il tutto, pone ordine al caos, ricrea un equilibrio o almeno il suo ricordo, la sua urgenza e appartiene alle donne.
Carlo Sgorlon sente il richiamo dell’avventura, ma non della storia: non ero nato per vivere e scatenarmi, ma per raccontare.
Conosce Thomas Mann attraverso la lettura di Tonio Kroeger. Si emozionerà poi con Carlo Levi, Beppe Fenoglio. Sente poca affinità con Pasolini, suo conterraneo. Diffida di Pavese, stravede per Elsa Morante (Invito alla lettura di Elsa Morante, 1972) e per il realismo magico di Dino Buzzati.
Ha deciso di fare lo scrittore. Ma per questo serve, prima di tutto, l’indipendenza economica. Perché, si sa, lo scrittore campa spesso di qualcos’altro.
Anche allora scrivere non garantiva la pagnotta, e ciascuno doveva impegnarsi in una professione che permettesse di sbarcare il lunario.
Carlo Sgorlon insegnerà nelle scuole per ventisei anni prima di ritirarsi in pensione e dedicarsi, ormai cinquantenne, alla passione di sempre.
Sgorlon ci accompagna nella sua storia di scrittore, presentando le opere che la sua fantasia ha via via prodotto. Tra le prime vi sono state La poltrona di legno (1968), La notte del ragno mannaro (1970), nelle quali esamina l’individuo di fronte alle nevrosi della nostra epoca. Dopo verrano i romanzi corali, che parlano di popoli (La luna color ametista, 1972).
Da una parte Sgorlon detesta la precarietà, cioè l’inconsistenza della vita, contro la quale si stagliano le cose che durano e che danno a essa significato: gli archetipi, l’etica, i miti racchiusi nelle favole, le tradizioni, tutto ciò che il tempo non riesce a incrinare, perché non rientrano nell’ottica dell’usa e getta. Sono le sole cose che riescono a diminuire l’ansia per la precarietà della vita.
Pur essendo divenuto un essere stanziale, ricoveratosi in case di pietra, l’uomo non sa nulla delle proprie origini, del proprio destino. Gli zingari, gli immigrati, non fanno altro che ricordare ciò che furono le antiche popolazioni europee (L’armata dei fiumi perduti, 1983). L’ostilità, la diffidenza verso costoro, tende a esorcizzare le tracce del mondo di quando si stava in miseria, il timore di essere privi di una patria.
In questo modo Carlo Sgorlon non solo nella scrittura ma nella vita stessa, cosa rara, ha preso le distanze dalla cultura dominante, di fatto demolitrice di mondi. Sia nella vita sia nella scrittura ha piuttosto inteso recuperare le proprie origini e questo lo può fare solo parlando di outsider, di popoli discriminati, che evitiamo solo per non riconoscerci riflessi nei loro occhi. Eppure non c’è altra maniera che questa per riconsacrare il mondo, di riconsegnarlo a noi stessi com’era e come vorremmo tutti che fosse: attraverso il mito e le tonalità epiche del racconto.
La cosa pare riuscire a metà.
Carlo Sgorlon lamentava di non essere stato accolto dalla sua terra, dal suo Friuli. Si considerava più friulano di Pasolini, è stato uno dei primi a scrivere del Vajont (nel romanzo L’ultima valle, 1987), delle foibe (La foiba grande, 1992) senza che questo fosse ricordato e la palma andasse, invece, a chi è venuto dopo.
Ciò che lo rattristava era la consapevolezza di essere letto, ma chi lo leggeva lo passava sotto silenzio, non si ricordava di lui. Forse perché era un autore scomodo, indipendente, no politically correct. O semplicemente uno scrittore.


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