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Recensione: "La sindrome di Stendhal" - D(i)ario Argento, la mia storia d'amore con il Re del Giallo (N°10)

Creato il 16 settembre 2015 da Giuseppe Armellini
Recensione: sindrome Stendhal
Torna finalmente la grande Miriam di Mirigoround ed il suo appassionato, personale e competente viaggio nella filmografia di Argento.
Siamo ormai all'Argento definitivamente quasi perduto.Prima però una prefazione su un film "saltato" in questo viaggio, Trauma (per colpa mia che l'avevo già recensito).
Prima o poi arriva, nella vita, un momento cruciale che definisce quello che diventeremo. I momenti di crisi sono, etimologicamente, degli spartiacque (ricordo un mio bravissimo professore che diceva che crisi deriva da krinein, dividere/scegliere - sempre che mi ricordi bene e che la vecchiaia non abbia soffocato la mia memoria), non per forza negativi. Il trauma, invece, è un evento negativo che resta indelebilmente impresso nella nostra mente e può essere foriero di una slavina di conseguenze negative. Ecco, Trauma è stato un trauma, per me. E uno spartiacque: da qui in poi, tra me e Dario, niente è più come prima.
Chi mi ha letto fino ad ora sa quanto affetto e ammirazione e venerazione io abbia per il Maestro, che fino a Opera mi ha spaventata, divertita, affascinata come nessun altro regista horror ha mai fatto. Poi arriva una fotografia dozzinale, gli attori cagnacci diventano ancora più cagnacci (sì, Asia, sì) e le morti da spettacolari diventano terribilmente improbabili. Se la caduta nell’ascensore di Il gatto a 9 code, con le mani che si sdrucciolano sui cavi era un tocco di classe sofisticatissimo, la testa mozzata che cade in ascensore ancora urlante in Trauma mi ha fatto coprire gli occhi dalla vergogna. Dario, Dario, Dario. Che ti succede? Hai perso la passione per strada assieme al piacere per la bella fotografia? Perché?Recensione: sindrome Stendhal 
Ma il Male puro è prendere il povero Pino Donaggio e utilizzare le sue musiche in un modo che non ti possono restare meno impresse di così. Sì, perché se Pino Donaggio è il genio che ha composto le musiche di Omicidio a Luci Rosse, tipo quella della sequenza di ballo-da-sola-mentre-mi-svesto della vittima-non vittima (spoiler de Palma!) che potrei canticchiarla qui e ora ma non lo faccio per non vilipendiare, allo steso modo è anche quel brillante sconosciuto che ha fatto al colonna sonora di Trauma - che chi se la ricorda?
Ogni tanto si avverte ancora il tocco di Dario, che come una folata di vento fa muovere le corde del mio cuore così come le tende nella prima sequenza di morte, quella ambientata a casa della medium: questa sequenza è ben fatta, fa discretamente paura, è molto teatrale e utilizza il soprannaturale con la cognizione di causa di chi fino a cinque minuti prima faceva gialli all’italiana e slasher, quindi con la cautela necessaria a non far diventare il tutto eccessivamente tamarro. Peccato che la cura impiegata per mantenere il soprannaturale a margine non venga messa anche nel rendere gli omicidi truculenti ma realistici. Unica nota positiva, il twistone finale n.1 “l’assassina è la mamma”, ma di questo ne ha già ben parlato qui Giuseppe. Il twistone n.2 fa paura, da quanto è brutto.
Ma io sono in realtà qui per parlarvi di un’altra macchia, La Sindrome di Stendhal, che, senza questa intro, non avrei potuto descrivere adeguatamente, perché, fino a poco fa, voi tutti mi conoscevate come quella che Dario Argento le piace proprio un casino, per dirla tamarra. Per una recensione completa e altrettanto esterrefatta di Trauma, leggetevi quella di Giuseppe 
Recensione: sindrome Stendhal
Allora, la sindrome. In breve: qui si rientra nel Giallo, ma non c’è traccia del mio Dario. Caro, dove sei? Dov’è la tensione? Dov’è la trama? Dove???? Io vedo solo un’Asia Argento che sviene davanti alla Caduta di Icaro di Bruegel, ma ha la faccia di una che pensa “carina, sta rob(b)a”, un tipo troppo gentile che le paga il taxi ma che si vede lontano mille chilometri che ha qualcosa da nascondere e, infatti, la droga e la stupra, rivelandosi, nel giro di 20 minuti, come il maniaco seriale su cui proprio Anna (A(n)sia), giovane poliziotta, stava indagando. SI è fatta fregare con NIENTE. Io non ci credo, anche se qui mi stanno preparando il terreno per le ottuse elucubrazioni del Cartaio (giammipiù voglio simili turpitudini nei miei occhi).
Il grosso problema di questo film è che vuole riconciliare il trauma e i suoi drammatici risvolti utilizzando, come punto di partenza, le indagini su uno stupratore seriale. Che ci sta, per carità, è pure una buona idea, ma quando il fulcro della vicenda dovrebbe essere il trauma, la follia, anzi, ancora meglio, un nuovo trauma che va a solleticare sofferenze infantili e le risveglia, donando loro una violenza e una forza inattese, non puoi metterci i millenni. L’idea c’era. Eccome. Bello, accidenti, bello. Ma no. No. Che rabbia. Perché, e qui non possono non SPOILERare, se il centro di tutto è il risvegliarsi in Anna, la protagonista, di turbe giovanili in seguito una violenza subita in età adulta non possono esserci 40 minuti di film e un’aggressione sessuale che non hanno nessun senso. E invece ci sono. Il fatto di far proseguire a caso le indagini sullo stupratore seriale (mi rifiuto di chiamarlo Alfredo, anche la scelta del nome non ha un senso che sia uno, che si vede lontano seimila chilometri che è tedesco) per due terzi del film, quando queste non conducono da nessuna parte, non ha senso se non quello di far incontrare nuovamente Anna e Alfredo e farle subire, ancora una volta, una violenza – in seguito alla quale Anna sembra riuscire a ucciderlo. Recensione: sindrome Stendhal Secondo me tutta questa parte di ri-traumatizzazione così tirata per le lunghe fa perdere forza alla narrazione e, quando iniziamo a intuire che Anna smatterà e smatterà malissimo (il che, purtroppo, accada visibilmente molto prima che lei effettivamente smatti), il film ,anzi che deflagrare in una violenta esplosione di rabbia incontrollata ed ebefrenica che ci sarebbe stata tantissimo, aspetta fino all’ultimo per fare questa scelta, rendendo l’acting out di Anna (o lo smattamento, se preferite – a me piace di più) decisamente debole – esempio: Anna che dipinge e inizia a rotolarsi sul pavimento tra i colori insozzandosi tutta. L’uccisione del povero Marie (anche qui, con i nomi stavolta proprio non ci siamo), un ragazzo francese incontrato al parco, avrebbe avuto tantissimo senso nella misura in cui Anna continua a rifiutare le avances del fidanzato (perché lo ama e sa che si lasciasse toccare lo farebbe a pezzettini) e, non appena si lascia toccare da Marie, dovrebbe ucciderlo. E invece no, si gingilla un pochino, dobbiamo aspettare sviluppi narrativi inutili prima che Anna agisca davvero in preda al trauma.E, come Anna alla fine del film, anche io, una volta spenta la tv, ho iniziato a vagare in stato confusionale, preda della terribile sensazione che il mio Dario se ne fosse andato per sempre.

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