Da giovedì 24 ottobre è nei cinema italiani La vita di Adèle, il film vincitore della Palma d’oro a Cannes 2013. Ripubblico la recensione scritta subito dopo la proiezione stampa al festival. Film già famoso e chiacchieratissimo: per la stracitata scena lesbica di dieci minuti, per le dichiarazioni polemiche rilasciate da una delle attrici, Léa Seydoux, sul regista Abdellatif Kéchiche e i suoi metodi rudi.La vita di Adèle (La vie d’Adèle – Chapitres 1 et 2), regia di Abdellatif Kéchiche. Con Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos.
Adèle sta per compiere 18 anni, sta con il più figo della scuola. Ma quando incontra Emma dai capelli blu capisce che niente per lei sarà più come prima. Il regista francese di origne tunisina Abdellatif Kéchiche (Couscous, La schivata) racconta una storia gay-femminile che è in realtà una storia d’amore universale. Con una scena di sesso lesbico memorabile, scatenata, molto esplicita e lunghissima. Il film di cui a Cannes si continua a parlare, il migliore di tutti. La giuria avrà il coraggio di premiarlo? Voto 8 e mezzoTre ore di film sull’amore tra due ragazze, girato da un regista francese di origine tunisina (che suppongo di religione islamica: ripeto, suppongo). Leggendo le informazioni fornite dal dossier de presse non riuscivo a prefigurarmi La vie d’Adèle, anche se Kéchiche lo conosco bene, avendo visto credo tutti i suoi film, a partire da Tutta colpa di Voltaire, e avendo amato specialmente La schivata. Non riuscivo, perché i vari elementi mi sembravano sconnessi, un puzzle impossibile da incastrare. Oltretutto di Kéchiche mi era poco piaciuto il suo precedente Venere nera, così ideologico e intriso di quella insopportabile cultura del piagnisteo che Robert Hughes ha stigmatizzato a suo tempo in un libro fondamentale. Dunque sono andato a vedermelo, La vie d’Adèle, molto prevenuto e anche sbuffando. Quando poi ho saputo che era tratto da una graphic novel (detesto le graphic novel e tutto il carico di retorica giovanilistico-chic che si portano dietro) il mio fastidio ha raggiunto livelli insostenibili. Invece mi pento dei miei cattivi pensieri e dei miei pregiudizi: signori, questo è il vero grande film di questo Cannes 2013. Quello che si tira fuori dal mucchio, che si eleva parecchie spanne sopra ogni altro, quello di cui si è più parlato e si continua a parlare. Come ormai è stato ampiamente scritto (anche da me per il sito di Myself), contiene scene lesbiche tra le due ragazze protagoniste di un esplicito mai visto nel cinema non-porno, tantomeno in un festival, in particolare una, la prima: dieci minuti di ogni possibile contatto e rapporto e variazione e relazione tra due donne e i loro corpi, dieci minuti scatenati e anche di travolgente bellezza. Era necessario andare tanto avanti e tanto a fondo? Non la si poteva evitare una scena così, come hanno scritto alcuni critici? No, non la si poteva evitare, era necessaria, imprescindibile. Senza, La Vie d’Adèle non sarebbe il film che è, esattamente come Ultimo tango a Parigi non sarebbe Ultimo tango senza la sequenza dell’analità imburrata. Punto. È quello il nucleo radioattivo del film di Kéchiche, ciò che conferisce identità, senso a tutto il resto, ciò che spiega quanto è successo prima e soprattutto quanto succederà dopo. Perché fa capire cosa sia l’amore-passione, l’amour fou, l’attrazione sessuale, il delirio della mente e della carne, la vertigine dei corpi che si toccano, si compenetrano, si confondono. L’inizio, meraviglioso, richiama molto da vicino quello di La schivata. Anche stavolta, come allora, siamo tra i ragazzi e le ragazze di una scuola, anche qui si studia Marivaux (là lo si metteva in scena, adesso si legge in classe La vie de Marianne). In più si parla di La principessa di Clèves, sicché Kéchiche con le sue citazioni letterarie già stabilisce le coordinate del proprio discorso cinematografico, della narrazione che verrà, anche della sua ambizione. Che è quella, evidentissima, di cimentarsi in un marivaudage aggiornato-contemporaneizzato (come del resto faceva mirabilmente Rohmer), muovendosi e serpeggiando tra le incostanze, gli sbandamenti, le meraviglie e anche le infelicità dell’amore. Perché l’amore può fare male, come Clèves insegna. Adèle, non ancora diciotto anni, di famiglia diciamo così proletaria-piccoloborghese, sta con il ragazzo più figo della scuola. Solo che un giorno vede passare una ragazza dai capelli blu, e di colpo tutto cambia. Si è innamorata di quell’immagine, la notte si masturberà pensando a lei, deciderà di lasciare il suo ragazzo perché non vuole ingannarlo, perché non può più amarlo. Eppure non sa chi sia colei che l’ha travolta. La ritroverà una sera in un locale gay: si chiama Emma, studia arte, è decisa a fare la pittrice, viene da una famiglia colta e borghese. Si incontrano, si conoscono. Quando finiranno a letto sarà qualcosa di tellurico, per tutte e due, e da quel momento sarà quella cosa chiamata amour fou. Kéchiche – lo aveva dimostrato nei suoi film precedenti – ha il dono raro di catturare la vita, di catturarne il respiro, il ritmo interno, l’essenza quasi biologica, corporea, fisica, più che psicologica. Sono in molti ormai a usare ossessivamente la macchina a mano, ma come lo fa lui ci riescono in pochi, lui i suoi personaggi non solo li pedina con la cinepresa, ma li sfiora, li tocca, li avvolge, li penetra. La carnalità, prime che nei letti abbondantemente sfatti di Emma e Adèle, sta nella relazion che si stabilisce tra la cinepra di Kéchiche e i corpi che ritrae. Vero, come dicono molti suoi critici, che non ha il dono dell’ellissi, che non sa tagliare, che è prolisso, che non tralascia nessun dettaglio, che i suoi film sono sempre troppo lunghi. Ma ci sta, è il prezzo da pagare se vuoi stare e vuoi situarti all’esatto livello di ciò che mostri e racconti, e poi ogni autore ha la sua impronta, Kéchiche è questo, e visto che ne escono quasi sempre cose mirabili non mi pare il caso di lamentarsi. La vie d’Adèle, anche se dura tre ore, non annoia mai, non ti fa sospirare guardando l’orologio, mentre ci sono film di un’ora e mezza che sembrano lunghi il doppio e pesano come macigni. Il metodo del regista è chiaro, costruire situazioni ambientali assai strutturate, scrivendo dialoghi strepitosi per naturalezza e credibilità, e poi di filmare gli attori e quanto accade in tempo reale. E funziona, altrochè se funziona. In La vie d’Adèle i pezzi memorabili sono molti. Le lezioni del professore, i dialoghi tra Adèle e le amiche-nemiche della sua classe, la cena di Adèle dai genitori di Emma (o meglio, dalla madre e dall’attuale suo marito) e la cena, speculare, di Emma a casa di Adèle. E il vernissage, il chiacchiericcio bon chic-bon genre degli amici di Emma, le lezioni di Adèle ai bambini. Non si finirebbe mai di elencare i frammenti di vita che Kéchiche riesce a cogliere e restituirci, o a costruire spacciandoceli virtuosisticamente per veri. L’amore di Adèle e Emma avrà la sua parabola, si riveleranno man mano le asimmetrie, perché è Adèle ad amare di più, e sarà lei a soffrire di più. La parte finale è, semplicemente, straziante, qualcosa che colloca La vie d’Adèle al livello delle grandi storie d’amore del cinema. Lo sguardo del regista fruga nei dettagli, ingrandisce cose che di solito non si vedono, sa anche essere tagliente e chirurgico come un laser. Questo non è solo il racconto di un amore, è anche l’analisi spietata di quanto le differenze di classe sociale contino nell’amore e influenzino la sua solidità, la sua forma e la sua durata. Grazie a Dio, anche se ci racconta una storia lesbica, questo non è un film gay militante. Adèle e Emma partecipano al gay pride, ma nessun proclama viene lanciato da Kéciche, almeno esplicitamente, nessun messaggio. L’omosessualità ci viene presentata come un dato esistenziale come un altro, tutto qui. Se nell’ambiente intello-borghese di Emma non c’è problema, in quello di Adèle qualche problema invece c’è. I suoi genitori non sanno e forse non capirebbero, lei non ne parla sul lavoro, temendo di perderlo. No, non c’è mai piagnisteo e lamento, sono annotazioni che Kéchiche butta lì quasi con noncuranza, e assai efficaci proprio perché fatte in leggerezza. Si dimentica subito che la coppia protagonista è gay-femminile. Gli entusiasmi e le pene d’amore di Adèle e di Emma sono quelli di tutti, sono le nostre, e basta. Eroiche le due attrici, che si buttano nell’impresa senza la minima remora. Léa Seydoux, la ragazza dei capelli blu, mette in gioco tutto, compresa la sua immagine e il suo status di nuova star del cinema francese, e stravince. Mica per autocitarmi, ma tre anni fa agli albori di questo blog l’avevo indicata come la mia attrice preferita. Confermo. La vie d’Adèle è stato presentato in una copia non finita, tant’è vero che mancavano i titoli di coda. Speriamo che l’ormai famosa scena d’amore non venga tagliata o rimaneggiata, soprattutto nella versione italiana. Alla seconda proiezione stampa erano presenti Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos, ed era la prima volta che vedevano il film.
Il regista Abdellatif Kéchiche