Cari
lettori, buongiorno a voi. Oggi post più denso del solito – ma
spero solo intenso, non dispersivo – in cui vi parlo della mia
ultima lettura. E siccome Still Alice è arrivato anche al
cinema e, grazie a un'indimenticabile Julianne Moore anche agli
Oscar, mi dedico ai confronti e ai paragoni, parlandovi nel frattempo
di un altro film che, nella stagione dei premi, sta facendo meritate
conquiste. Questo martedì sono un po' anche Mr. Ciak. Ringraziando
le gentili Marina e Cetta per la copia staffetta, vi auguro buona
lettura e buona visione. Fatemi sapere la vostra, come sempre: sul
film, sul libro, su quello che vi va. Sto
perdendo i miei ieri. Titolo:
Still Alice – PerdersiAutrice:
Lisa GenovaEditore:
PiemmeNumero
di pagine: 293Prezzo:
€ 16,90Sinossi:
C'è
una cosa su cui Alice Howland ha sempre contato: la propria mente. E
infatti oggi, a quasi cinquant'anni, è una scienziata di successo,
invitata a convegni in tutto il mondo, che ha studiato per anni il
cervello umano in tutto il suo mistero. Per questo, quando a una
importantissima conferenza, mentre parla davanti a un pubblico
internazionale di studiosi come lei, Alice perde una parola - una
parola semplice, di cui conosce benissimo il significato - e non
riesce più a ritrovarla nel magazzino apparentemente infinito della
sua memoria, sa che qualcosa non va. E che nella sua testa sta
succedendo qualcosa che nemmeno lei può capire. O fermare. La
diagnosi, inimmaginabile fino a un momento prima, è di Alzheimer
precoce. Da allora, Alice, perderà molte altre parole. Perderà pian
piano i nomi - per primi, quelli delle persone che ama, suo marito, i
tre figli ormai adulti. Perderà i ricordi, ciò che ha studiato, ciò
che ha fatto di lei la persona che è. In questo viaggio terribile la
accompagnerà la sua famiglia: il cui compito straziante sarà di
starle vicino, di gioire con lei dei rari momenti, luminosi e fugaci,
in cui Alice torna a essere Alice. E, soprattutto, di imparare ad
amarla in un altro modo. La recensioneMi
ero perso Perdersi, anni fa, per pigrizia e non curanza.
Immaginavo che dietro quel verbo riflessivo all'infinito ci fosse un manuale,
un saggio d'auto aiuto; non un volto, non una storia. Non un nome.
Quando hanno annunciato il film, poi sì che ho capito. E per una
volta, vi dirò, sono felicissimo di possedere l'edizione che ho io,
la più recente, con il poster cinematografico in copertina: io che
le ristampe, eppure, non le amo troppo. L'eccezione, da attribuire al
titolo originale che accompagna quello italiano, diventato
improvvisamente un sottotitolo posto come in secondo piano. La lingua
straniera si concentra sulla persona, su quello che durerà per
sempre; la nostra, secca e fatalista, su quello che, al contrario, se
n'è andato via, nel cuore della notte, per non tornare mai più. Ci
si smarrisce, vero, ma resta un nome, un avverbio di tempo, per
ritrovarsi... forse. Ho voluto quel romanzo con due titoli e due
significati perché è risaputo quanto le storie che tutti evitano,
quelle indicibilmente tristi, mi piacciano. Magari uno la scambia per
una sensibilità che in realtà non ho; un altro per forza. Ma vi
dico, in realtà, che a me che non l'ho mai provato il dolore fa
tanta paura. E leggo, mi documento, faccio e dico, in modo che saprò,
un giorno, sopportarlo a denti stretti. Non sono affatto coraggioso.
Nei romanzi incentrati sulle tematiche più delicate e spinose,
quelli di cui ogni pagina è un taglio profondo, la malattia è di
contorno, negli spazi vuoti. E' un scusa per
parlare d'amore. La classica Big C, di solito, crea il contesto
adatto per una storia impossibile; cosa c'è meglio di una relazione
che sfida l'evidenza, i capelli che cadono, i polmoni che ci fanno
sputare sangue? In Perdersi, la malattia – un'altra, una
descritta di rado tanto che è misteriosa - è la vera protagonista.
La si guarda in faccia, ed è come un mare che ti travolge, ti
soffoca e ti sputa a riva, senza fiato. Miracolo del self publishing,
quando anche un cieco avrebbe capito immediatamente di che pasta è
fatto, ha perizia, scrupolosità, realismo, grazia. E' un esordio di
una potenza a cui non si crede. Complicato, credibile, in movimento
costante. Lisa Genova sa quello che dice. Sa come dirlo con lo stile
giusto per l'occasione giusta. Sa che ti farà male e ti ringrazia:
devi essere pazzo per leggerlo, ma anche per rifiutarti di farlo. L'Alzheimer – il male più bastardo e imprevedibile del
mondo – guardalo da vicino e non piangerti addosso, finché hai
ancora gli occhi per guardarlo e le parole per dire quanto
terrificante è. Mi aspettavo che una neoropsichiatra, una donna di
scienza, non fosse in grado di scrivere romanzi. Qui, invece, pur non
essendoci qualunquismo di nessun tipo, non si cade nell'eccesso. Ho
letto trecento pagine scritte benissimo, che non mi spiegavano una
storiellina ricattatoria, né lo facevano con i toni distaccati di
una cartella clinica. Perdersi è straziante, ma non gratuito.
Ha religioso rispetto verso un dolore non messo all'asta; sarà che è
il dolore che ci parla di sé stesso. Ti spiega come funziona il
cervello, come funziona quando qualcosa si guasta e non si può
riparare, e lo fa con il linguaggio universale del cuore. Ma Perdersi
è tanto quello, un conto alla rovescia inarrestabile, quanto la
storia di una donna come tante e come poche. Ecco perché mi piace il
titolo originale: la chiama per nome e, se è un giorno di quelli
buoni, lei magari risponde. Siamo al suo fianco, come al capezzale di
un malato. Ma peggio. Anche se raccontato in terza persona, il libro
è dentro di lei e i suoi pensieri, onesti e brutali, anche per me –
ormai dotato di una buccia dura e brutta - sono risultati bocconi
difficile da mandare giù. Chi dirà ai suoi tre figli che, solo
facendoli nascere, li ha messi in pericolo? Chi controllerà se ha,
nelle tasche del cappoto e nei calzini, vedendola vagare per strada,
il biglietto con su scritto l'indirizzo di casa? Chi aiuterà John a
trovare le chiavi della macchina, quando lei non troverà neppure il
bagno? Lei ha i sintomi, ma non le prove concrete sin dall'inizio.
C'è sempre un'altra spiegazione. Quindi aspetta, ma lo sa lei e lo
sa il lettore. Che la sua storia, dopo cinquant'anni e altrettanti
capitoli pieni di gioie e soddisfazioni, parla di Alzheimer
presenile. Vive di parole e le parole le sfuggono, d'un tratto, come
sabbia tra le dita. A causa di una malattia ereditaria, lasciatale da
un padre che sembrava avere fatto solo di lei la superstite del suo
egoismo omicida, il morbo si intrufola e ruba. Rinnova traumi, dà
vita a lotte già perse contro gli specchi traditori, umilia. Il romanzo
è ambientato una decina d'anni fa e, istintivamente, ti viene da
chiederti cosa sia stato di lei. Quella Alice che, da bambina,
piangeva per la vita troppo breve delle farfalle e che avrebbe avuto,
poi, la stessa memoria corta di quelle creature volanti; quella che,
e commuove nel farlo, confessa che baratterebbe la sua patologia con
un cancro distruttore – perché il tumore ti rende agli occhi degli
altri un martire, l'Alzheimer matto. Ti toglie la dignità, anche se
quella di Alice resta fieramente intatta, precludendoti perfino la
possibilità di decidere quel che sarà dei tuoi domani. Di dire
voglio farla finita, voglio morire. Il suicidio, come il nome
dei figli e il posto del cellulare, è il più fugace tra i pensieri
fugaci. Se ti scordi persino di essere così sofferente da desiderare
di non svegliarti più, cosa puoi dire ci sia di più spietato e
angosciante? Immaginate se un film, con una grande attrice, per una
grande competizione, tentasse di dare risposta a queste domande
sparse. Sarebbe potentissimo, ci sarebbe da affogare nel pianto. E
invece no. La trasposizione cinematografica è tanto rispettosa della
malattia, quanto del romanzo da cui è tratta. Triste, ma la metà
esatta del libro. Delicata, ma coraggiosa. Spoglia e essenziale, ha
una regia convenzionale, non per questo sinonimo di cattiva
direzione del cast, e un uso saggio della messa a fuoco, che isola la protagonista dal resto, in una bolla a tenuta stagna. I registi, coppia anche nella vita privata, sono rimasti
insieme, nonostante la Sla diagnosticata a Richard Glatzer, e
dirigono un prodotto lucido e pieno di dignità. In cui il marito
Alec Baldwin, con chili di troppo e difetti umani,
pensava di non meritarsela una famiglia perfetta. In cui tra figli
carismatici e competitivi, educati al culto della perseveranza, c'è
una pecora nera che fa l'attrice, si chiama Kristen Stewart e si
rifiuta di sapere quale gene ci sarà nel suo futuro. Una sorpresa la sua
Lydia, interpretata con una convinzione che nessuno
– fatta eccezione per chi già l'ha vista brava in Camp X-Ray e
Sils Maria – si
sarebbe aspettato dall'ex stella di Twilight.
Gli sceneggiatori avevano a disposizione passaggi forti e scene madri
che avrebbero fatto piacere all'Academy e al pubblico in cerca della
lacrima facile; peccato che Still Alice non
cerchi questo. Manca il pianto, ma c'è verità negli occhi vacui di
una protagonista che ti emoziona senza strafare. Julianne Moore è la più brava in gara perché ti scordi che stia
recitando, mentre lei si scorda del resto. Dietro la sontuosa Pike di Gone Girl,
fino a poco fa la mia favorita, c'è un diabolico lavoro di
costruzione: lei scuote, con un personaggio che sembra scritto dal
Dio crudele dell'antico testamento. La Moore,
controcorrente, fa l'opposto. Still Alice è
un'opera di destrutturazione, di lenta demolizione. Come passare da
volto che buca lo schermo – e il suo è un volto bello come pochi,
anche a cinquantaquattro anni - a comparsa della propria vita; ad
attrice di cellophane. Come spieghi a un'interprete cosa non fare? Rari i pianti, trattenuti gli scatti di
rabbia, poche le crisi di panico: il film, al contrario del romanzo,
non dà indicazioni temporali. Le scene sono brevissime, il montaggio
è secco, le connessioni tra le sequenze sono difficili da
individuare. Un cancellino spazza via tutto e sulla lavagna di una
vita resta una striscia chiara, gesso, che alla prossima passata di
spugna andrà via. La storia di Alice ti spolpa, ma si
concentra su quello che la malattia lascia, non su quello che la
malattia toglie. E' un countdown da incubo, ma finisce con l'amore,
per quel che vale. Con l'amore e con l'Alzheimer. Senza sconti, senza
inganni. Se l'amore – secondo la leggenda, dalla parola latina
“mors”, morte, con un'alfa privativo davanti –
davvero è vita eterna. Così, nel bel mezzo dell'amnesia propria di
chi, in un anno, legge troppo, croce sul cuore, potrei giurare
che io questa storia non la scordo. No. Il
mio voto: ★★★★{Il film: 7+}Il
mio consiglio musicale: Bastille – Oblivion
"Are
you going to age with grace?Are
you going to age without mistakes?Or
only to take wake and hide your face?"
Le mie parole d’acqua di Maria Luisa Mazzarini Edizioni Divinafollia, Caravaggio, 2015 Recensione di Lorenzo Spurio “Le mie parole d’acqua” (2015) Dopo Lantern...
Leggere il seguito
Non l'avrei mai detto ma Maggie, atipico film sugli zombie con Arnold Schwarzenegger diretto dal regista Henry Hobson, è arrivato anche in Italia.
Leggere il seguito
30 giugno 2015 Lascia un commento L’ultimo pezzo che compone il grande mosaico del MART e’ la Galleria Civica di Trento. Ci spostiamo quindi dalla bella Roveret...
Leggere il seguito
Come forse sapete se leggete il mio blog abitualmente, io ho un passato da simpatizzante della destra religiosa. Sì, è un passato moooolto passato; parliamo di...
Leggere il seguito
Un piccolo documentario, anzi meglio una denuncia sulla manipolazione mentale made in Italy. Preparai questi video tempo addietro e poi li lasciai decantare...
Leggere il seguito
Da Marta Saponaro CULTURA,
DIARIO PERSONALE,
PARI OPPORTUNITÀ,
PER LEI
È triste dover constatare che ciò che va di moda, ciò che il pubblico cerca e gli editori scelgono di portare sugli scaffali veicola comportamenti da...
Leggere il seguito