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[Recensione] Lo specchio nero di Alfonso Domingo

Creato il 27 gennaio 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

Lo specchio neroTitolo: Lo specchio nero
Autore: Alfonso Domingo
Editore: Leone
ISBN: 9788863930818
Anno: 2012
Traduzione di: Claudia del Giudice
Numero pagine: 480
Prezzo: € 15,00
Genere: romanzo storico, thriller
Voto: [Recensione] Lo specchio nero di Alfonso Domingo

Trama: Che fine ha fatto Giona e la balena, il misterioso dipinto di Bosch che sembra far capolino in epoche diverse per eclissarsi, sparire e tornare di nuovo? E che poteri nasconde lo specchio che il pittore ricevette in dono da un alchimista? Attraverso la Spagna della guerra civile e i lager nazisti, un esule [Jerónimo Diaz] cercherà di venire a capo di questo mistero.
Ma non è il solo a cercare il dipinto, perché altre forze, oscure e minacciose, sembrano esserne interessate.
Un romanzo straordinario che ripercorre attraverso i secoli le tormentate vicende d’Europa, unendo alla fascinazione dell’ambientazione storica, la miglior tradizione del giallo, nel segno di Pérez-Reverte, Dan Brown, Carlos Ruiz Zafón. Con questo romanzo Alfonso Domingo ha vinto il prestigioso Premio Ateneo de Sevilla.

 Recensione: Questo romanzo contiene tre storie che, in apparenza, non potrebbero essere più remote. C’è il fine Quattrocento di Carlo il Temerario e dell’imperatore Massimiliano, nonni di Carlo V, contemporanei di Hieronymus Bosch (1453-1516), ci sono la guerra civile spagnola, la II guerra mondiale, l’ombra dei campi di sterminio: eventi e personaggi che sono porte che si aprono ai nostri giorni.

La narrazione qua e là riproduce il ritmo di un pendolo che oscilla tra le epoche in un modo armonioso, senza creare le distorsioni che ci si aspetterebbe, o bruschi mutamenti di tono. L’incastro che ne risulta è privo di sbavature, cosa non facile quando ci si cimenta in un romanzo storico. Le esigenze sono molte, come le difficoltà da non sottovalutare. Il genere è un campo minato perché non è sufficiente dominare e interpretare le fonti storiche. Queste devono essere vivificate dalla penna dell’autore, il quale è tenuto a infondere a esse nuova linfa, per ricreare un mondo intero. Inoltre è facilissimo, quasi scontato, eccedere nell’infodump, specie nei dialoghi, dove ciascuno può sembrare rivolgersi più al lettore che al proprio interlocutore. Nel libro ciò accade raramente e comunque in modo non marcato.

Nella presentazione del volume si rimanda alla miglior tradizione del giallo, e fin qui tutto bene. Il rinvio ad autori quali Dan Brown o Carlos Ruiz Zafòn crea un po’ di perplessità perché è evidente che si tratta di autori con stili di scrittura e personalità alquanto diverse, difficilmente equiparabili. Il richiamo intende solo dare un’idea di ciò che le pagine contengono.

Esaminando la storia, vi è un protagonista silenzioso e infido, presente e assente nel corso dei secoli: un quadro che è sopravvissuto a colui che l’ha dipinto. Le sue sparizioni e le improvvise e improvvide comparse fanno breccia nei cuori di chi ama l’arte, solleticando allo stesso tempo le brame di affaristi che desiderano impossessarsene a ogni costo. È il Giona e la Balena di Hieronymus Bosch.

Tra i primi (amanti dell’arte) incrociamo Jerónimo Diaz, un talentuoso pittore spagnolo che durante la guerra ha avuto modo non solo di vedere, ma anche di sfiorare e studiare l’opera per ricavarne una copia. Ne rimane assai impressionato:

Percepii una sensazione a fior di pelle. Come se quel quadro racchiudesse un segreto. Un enigma per iniziati. Mi venne la pelle d’oca.

La copia è il riscatto per strappare da morte certa famiglie ebree destinate nei campi di sterminio. Si approfitta del fatto che nella Germania nazista vi era chi ossessivamente si dedicava alla collezione di opere d’arte, saccheggiandole come si fa con un bottino. Il compito affidato a Jerónimo Dìaz è più unico che raro: mai e poi mai l’originale del Giona e la Balena di Bosch poteva essere mostrato a chicchessia.

Ebbene gli ingranaggi della storia decidono altrimenti, nulla di quanto progettato va in porto: l’originale e la copia scompaiono per settant’anni, insieme al misterioso Santiago Mainger che aveva commissionato la riproduzione.

Chi sarà mai, ci domandiamo a un certo punto, questo strano personaggio che pagina dopo pagina assume le sembianze di un vero e proprio custode dell’altrettanto misterioso dipinto di Bosch? E a che titolo lo possedeva? Egli sfugge, appare e ricompare seguendo le sorti del quadro. È soprattutto una sua frase, buttata là quasi per celia, che ci fa stare sull’attenti. La storia qui raccontata, nel suo insieme, è frutto di circostanze che si inseguono, si richiamano tra loro, in un gioco di coincidenze avvenute o mancate, come se vi fosse un disegno invisibile:

«Nella vita le coincidenze non esistono. Se ne accorgerà se vivrà abbastanza a lungo.»

Finalmente ci troviamo catapultati nei nostri giorni, per il momento i quadri, Jerónimo e Mainger sono stati inghiottiti dal tempo. Compare un altro personaggio, anch’egli non privo di interesse: Javier Carreño, dottore in arte medievale, esperto e studioso dei primitivi fiamminghi e specialista di Hieronymus Bosch, intento a organizzare una mostra dedicata all’artista nel museo del Prado, a Madrid.

Javier Carreño ha un rapporto tutto suo con Bosch, un senso di appartenenza, quasi di identificazione:

Dove altri avrebbero visto incubi e mostri assurdi, lui vedeva allegorie della condizione umana, allegorie che gli erano tanto familiari quanto le sue ansie, le sue incongruenze con la vita e con la gente.

Può sembrare strano perché questo aspetto mi aspettavo di coglierlo più in Jerónimo Diaz, condividendo con Bosch il nome di battesimo. Ma ciò non fa altro che dimostrare che il gioco di sincronia tra richiami e coincidenze segue direzioni inaspettate.

Si ha l’impressione che sia Bosch che Carreño, pur essendo uomini del proprio tempo, (moderni entrambi), siano in qualche modo protesi oltre la loro epoca, cioè verso un cambiamento, un rinascimento. Uno con la maiuscola, l’altro no; uno collettivo, l’altro più intimo e personale. Javier sta sul chi vive, in perenne attesa di qualcosa. Non sembra in grado di prendere il proprio destino a piene mani, si affida a forze sconosciute, alla geometria degli eventi. Come Bosch, anche Javier in fondo si accorge di essere un uomo solo. Ha molte storie alle spalle, radici poche, o nessuna. È anche lui, come tutti, nel ventre della balena, in attesa di uscire da un luogo chiuso del cuore e della mente, prima che lo spirito vada in cancrena, come una malattia. A volte basta immaginare che vi sia un oltre, un altrove cui far ritorno.

Se nel Medioevo Bosch poteva avere sentore di una nuova era, cioè di un momento in cui l’uomo avrebbe pensato meno all’aldilà concentrandosi di più su ciò che stava intorno: la natura, la bellezza, lo stesso essere umano che sarebbe a sua volta diventato protagonista, nell’epoca di Javier l’uomo ha occupato tutto lo spazio, assorbito in un egotismo che ha dilatato i suoi appetiti e ridotto al lumicino lo spirito.

Non ricordo più il nome di quel filosofo che vedeva nel Medioevo il raggiungimento dell’apice della cultura: tra copisti, intellettuali e filosofia scolastica si era detto tutto; si erano poste le basi del Rinascimento stesso; il Rinascimento non aveva fatto altro che raccogliere quanto si era seminato durante i cosiddetti secoli bui. Ebbene questo filosofo considerava che il momento del declino della civiltà dell’uomo cominciava già allora, mezzo millennio fa, con l’inizio dell’età moderna (che convenzionalmente si fa datare dal 1492). Poco o nulla è cambiato nella cultura e nelle menti: ecco cosa si dice tra le righe di questo romanzo. A pensarci bene c’è da chiedersi quale saggezza di fondo dovessero avere coloro che durante il Rinascimento avevano fatto sì che Giona e la Balena e il segreto che conteneva scomparisse o circolasse sottobanco, e cioè non oltre a uno strettissimo manipolo di iniziati.

Se il Medioevo pensava troppo all’aldilà  con il Rinascimento l’uomo, come Giona, è stato inghiottito dal proprio egoismo. Chissà se questo ipotetico quadro di Bosch intendeva preannunciare proprio questo, cioè un’umanità uscita dal ventre dei secoli bui medievali per ritrovarsi nuovamente divorata da un’altra balena. Va da sé che il dipinto misterioso è una lucerna, un invito a uscire: è assurdo e insensato che esso finisse nel buio di uno scantinato, di una pinacoteca, di un museo, di una balena. L’oggetto del simbolo o della metafora non può divorare il simbolo o la metafora. La logica è stringente. Talmente stringente che il lettore non può non domandarsi se esista veramente il Giona e la Balena di Bosch.

Questo quadro contribuisce a dare l’idea del continuum spazio temporale con il quale l’autore ha inteso concatenare in un tutt’uno epoche distanti e tuttavia strettamente collegate. Ha raccontato del ponte gettato tra due versanti, ben rappresentato dallo specchio nero che dà il titolo, una porta tra universi o dimensioni comunicanti, simulacro del ventre della balena o di un abisso accogliente e protettivo. E come tale era ed è destinato a stare all’esterno, al di fuori, assumendo l’incanto dell’intangibile, dell’ineluttabilità cui una volta o l’altra ciascuno è destinato a confrontarsi.


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