Magic in the Moonlight, un film di Woody Allen. Con Colin Firth, Emma Stone, Jacki Weaver, Hamish Linklater, Marcia Gay Harden, Eileen Atkins. Nella sezione Festa mobile. Al cinema da giovedì 4 dicembre.
Woody Allen traduce im forma di romantic/sophisticated comedy l’oppisizione binaria ragione-fede, razionalismo positivista-spiritualismo. Mettendo a confronto e scontro un illusionista e la presunta medium di cui lui vorrebbe smascherare la cialtronaggine. Film di impeccabile confezione ed eleganza, ma monocorde e un filo tedioso. Voto 6 e mezzo
Dopo il tosto, implacabile, disincantato Blue Jasmine, un Woody Allen forse bisognoso di atmosfere meno cupe e personaggi meno devastati si rifugia in una classica romantic e pure sophisticated comedy, tutto un battibecco lui-lei e un misurarsi e un punzecchiarsi per saggiare i rispettivi punti di resistenza e fragilità, che poi tanto si sa come va a finire. Mica per niente retrodata agli anni Venti per rifare non tanto e non solo la guerra dei sessi secondo la Hollywood classica – con un occhio privilegiato a Ernst Lubitsch -, ma quella di ascendenza teatral-britannica alla Oscar Wilde e Noël Coward. Con tanto cinismo sciorinato a certificare la classe A di questa rom-com, ché ogni eccesso di smanceria e sentimentalismo farebbe subito film da serve (“solo le cameriere si innamorano”, sentenziava l’avvocato Agnelli). Impeccabilmente scritto, però non così necessario, e un po’ troppo lungo e tedioso, concentrato com’è sui due protagonisti – lui (Colin Frth) e lei (Emma Stone) – e scarse fughe lateralmente, con gli altri a far da contorno e da coro, o da porgitori di battute brillanti, quelli che nel teatro popolare italiano si chiamavano spalle. Si parla molto di credere o non credere in Dio (“Dopo Nietzsche l’argomento è chiuso”), di al di là, di oltre vita, però in chiave di leggerezza woodyalleniana, e quando le disquisizioni tendono a farsi serie e a evocare un po’ troppo lo spettro della morte subito si taglia corto e si torna a sorridere e far sorridere. Tant’è che la vecchia zia del protagonista, nonostante l’età venerabile e l’incidente di macchina che le è occorso, torna dal letto d’ospedale indomita a solcare l’al di qua, in una metafora trasparentissima e scaramantica dell’immortalità. Isomma, un Woody Allen profondo ma mica troppo, che si affaccia sull’abisso per poi subito ritrarsene e esorcizzarlo. Lo scontro, diciamo pure dialettico, l’opposizione binaria su cui si incardina tutto Magic in the Moonlight è quello tra ragione e fede. Tra razionalità e spiritualismo. Tra credo-in-quel-che-vedo e abbandono al magico. Che è anche tenzone tra maschile e femminile. Siamo nell’Europa degli anni Venti un po’ ruggenti e un po’ weimar-berlinesi-decadenti, voglia di spassarsela e senso di catastrofe imminente. Stanley Crawford, un illusionista britannico che si esibisce in tutto il continente sotto la falsa identità cinese di Wei Ling So, viene chiamato in Costa Azzurra a smascherara una sedicente medium americana, bella e giovane, che risponde al nome di Sophie Baker. Di lei si sono infatuati la matriarca di una ricca famiglia americana e il figlio di lei, che la sensitiva se la vorrebbe addirittura sposare, e che han deciso di ospitarla nella loro villa sulla Riviera francese. Diffidenti invece l’altra figlia e il marito di lei, un seguace delle teorie e pratiche freudiane. Stanley è convinto di riuscire a smascherare l’impostora in poco tempo, ma non sarà così. Sophie gli darà del gran filo da torcere, sorprendendolo con rivelazioni sul suo passato. Laicismo-ateismo di impronta positivistica ottocentesca opposto ai (presunti) prodigi inscritti in un’altra dimensione inconoscibile. Woody Allen è molto abile nell’illustrare in parole il confronto-scontro tra le due parti, che sono anche due visioni del mondo, ma più di tanto non ce la fa a introdurre variazioni su un tema che nella sua essenza resta limitato. Certo, in parallelo si sviluppa un’altra traccia narrativa, il gioco dell’attrazione tra i due, il misterioso instaurarsi dell’amore su un terreno che parrebbe sfavorirlo. Ma non basta a sconfiggere la noia che a un certo punto trapela (e trabocca). Gli attori, come sempre in Woody Allen, non sbagliano un’intonazione, un tempo, una battuta. Colin Forth e Emma Stone, nonostante la differenza d’età, sanno rendere credibili i loro personaggo. Magic in the Moonlight, pur con i non rari momenti di grazia, resta un film monocorde e prevedibile. Con però almeno una grandissima scena, quella del monologo in cui Stanley/Colin Firth dubita di se stesso, di quel che è stato fino a quel momento, della sua cieca fede nella ragione e si apre verso l’ignoto, verso un altro se stesso.
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Recensione: MAGIC IN THE MOONLIGHT di Woody Allen. Elegante e un filo tedioso
Creato il 03 dicembre 2014 da LuigilocatelliPossono interessarti anche questi articoli :
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