Titolo: Morire a Calatubo
Autore: Maria Patrizia Salatiello
Editore: Leone editore
ISBN: 9788863930856
Lingua: italiana
Numero pagine: 132
Prezzo: 6 Euro
Genere: Giallo
Voto:
Trama: È la vigilia di ferragosto a Calatubo, un piccolo paese nell’entroterra palermitano. La pineta di Torrealta brucia, come ogni anno. Le guardie forestali, chiamate a spegnere gli ultimi focolai dell’incendio, trovano un cadavere semicarbonizzato. L’autopsia rivelerà che il corpo è quello di una giovane donna parigina e la causa della morte è stata un colpo di lupara. Di lì a poco sarà ucciso un bracciante con la stessa arma. Quale nesso può esservi tra queste due morti? Cosa può accomunare una raffinatissima francese e un poveraccio che riusciva a stento a sfamare la sua numerosa famiglia? Agostino Celesti, commissario di quello sperduto paese, conduce le indagini, a suo modo, oscillando fra l’uso delle più moderne tecnologie e la sua curiosità per l’animo umano.
Recensione: Si tratta di una lettura leggera, senza troppe pretese. Il racconto è nel complesso accettabile, ben scritto e scorrevole.
Sulle prime la suddivisione dei capitoli in episodi mi ha fatto pensare a racconti in qualche modo legati, non a un’unica storia divisa in scene. Perché quelle che si susseguono assomigliano proprio a scene, più che alla penna e alla mente di uno scrittore si pensa a una macchina da presa, a un regista. Fin qui niente di male.
Homicide Hills: il Commissario Sophie Haas
Non so se sia voluto, ma appare evidente l’omaggio che l’autrice ha voluto prestare ai polizieschi televisivi. L’ambientazione stessa, le atmosfere abilmente costruite mi hanno fatto pensare subito a una serie tedesca che ho seguito quest’estate molto volentieri. Raccontava una serie di delitti e di casi da risolvere in un paesino sperduto di campagna (Homicide Hills, Un commissario in campagna, titolo originale Mord mit Aussicht ). Anche qui niente di male.
Ho pensato anche a Montalbano: il commissario Agostino Celesti lo ricorda un po’ nel suo rintanarsi nella quiete del suo terrazzo, dimentico di sé, del mondo e delle miserie con cui [è] stato in compagnia tutto il dì.
Il problema è che l’autrice a un certo momento esagera, perché come se non bastasse appare prepotentemente un emulo di Agatino Catarella, centralinista del commissariato di Vigata, personaggio di Camilleri:
Saverio Corteggiani entrò preceduto, come sempre, da quel suo bussare alla porta così violento che ogni volta pareva che l’avrebbe buttata giù.
(…)
La porta dell’ufficio tremò sotto i colpi di qualcuno che bussava con violenza.
«Corteggiani, qualche giorno la sfonderai, quella porta. È mai possibile che tu debba bussare con tanta forza?»
«Mi scusi, signor commissario capo, non lo faccio apposta, è che voglio essere sicuro che lei mi senta.»
Ma perché, mi domando, perché rovinare in questo modo un romanzo? Procedeva così bene, l’atmosfera creata era ed è evocativa, piacevole. La scrittura è semplice e dignitosa, alla faccia di qualche incertezza e refuso. Eccedere negli omaggi e nelle citazioni non era assolutamente necessario.
Da qui in poi l’incanto è rotto, il tutto assume un che di artificioso, perde di spessore, scoppia come un palloncino colorato. Alla fine non si capisce cosa l’autrice abbia inteso costruire: luoghi e personaggi si stemperano, svaniscono. Non capisco nemmeno più chi sia Agostino Celesti: un po’ Montalbano, un po’ Derrick impegnato in un braccio di ferro psicologico.
Anche gli altri personaggi diventano figure diafane e impalpabili. Tutto per colpa di cinque righe. Possibile? Il perno del tutto era l’atmosfera, il nome stesso di Calatubo, le alture sulle quali faticosamente ci si avvia per un sopralluogo, i cani che tornano indietro senza aver trovato le tracce sperate.
Certo, la storia nel suo complesso è fragilina, sappiamo subito cosa ci aspetta, lo schema è chiaro fin dall’inizio, ma non mi sarebbe importato più di tanto.
Peccato. Giunto al finale mancavano solo i titoli di coda. C’è davvero da mordersi le mani.