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[Recensione] Perché essere felice quando puoi essere normale? – Jeanette Winterson

Creato il 29 settembre 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

[Recensione] Perché essere felice quando puoi essere normale? – Jeanette WintersonTitolo: Perché essere felice quando puoi essere normale?
Autore: Jeanette Winterson
Traduttore: Chiara Spallino Rocca
Editore: Mondadori
ISBN: 9788804615002
Num. Pagine: 216
Prezzo: 18,00€
Voto: [Recensione] Perché essere felice quando puoi essere normale? – Jeanette Winterson

Trama:
Nell’autunno del 1975 la sedicenne Jeanette Winterson deve prendere una decisione: rimanere al 200 di Water Street assieme ai genitori adottivi o continuare a vedere la ragazza di cui è innamorata e vivere in una Mini presa in prestito. Sceglie la seconda strada, perché tutto quello che vuole è essere felice. Tenta di spiegarlo alla madre, che però le chiede: “Perché essere felice quando puoi essere normale?”. Da questa frase inizia il racconto intimo e personale di un’infanzia trascorsa fra un padre indifferente e una madre che passa le notti sveglia ad ascoltare il Vangelo alla radio, impastando torte e lavorando a maglia. La sua è fin dall’inizio la storia di una lotta per sopravvivere alle prepotenze di questa madre, che trova normale lasciare la figlia fuori dalla porta tutta la notte e sottoporla a esorcismi liberatori. Una lotta per affermare se stessa, la propria omosessualità e l’amore per i libri. Perché questa è anche la storia di un amore infinito per la letteratura, nato per proteggersi e per cercare quell’affetto stabile che in casa sembra mancare irrimediabilmente, un amore che resiste anche quando la madre scopre i libri che Jeanette nasconde sotto il materasso e li dà alle fiamme. Con generosità e onestà intellettuale, Jeanette Winterson scava nei propri pensieri e sentimenti di bambina, adolescente e donna, ripercorrendo nel contempo la sua dolorosa ricerca della famiglia naturale. Ne esce un racconto intenso, a tratti tragico ma anche allegro, come sa essere la sua scrittura.

Recensione:
Come già affermai quando recensii Due piccoli passi sulla sabbia bagnata, giudicare un libro autobiografico, o semi-autobiografico, non è mai semplice. Perché? Perché nel raccontare la propria vita l’autore tende a focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti piuttosto che su altri, concentrandosi sulle sensazioni magari di alcuni avvenimenti anziché che su una visuale più generica o che magari il lettore avrebbe preferito approfondire.
Jeanette Winterson non è nuova a questo genere di struttura. Non ci sono le arance e Scritto sul corpo sono opere che di nuovo ci mostrano storie che molto prendono dalla sua biografia, in campo familiare, sociale, amoroso, ed è lei stessa ad affermare che queste storie hanno tutto e niente di sé, che forse sono inventate o forse no, lanciando appunto un’esca che lascia un poco confusi.
A ogni modo… Un bel libro, ma che pare superficiale.
Una doratura se così la vogliamo chiamare. La Winterson scrive bene, scrive in maniera sciolta e usufruibile da qualsiasi pubblico, e gli aneddoti che racconta sono concreti, scene ben delimitate, immediate, descritte con un’ottima tecnica.
Peccato che si ha l’impressione che i capitoli comincino col parlare di un qualsiasi evento dall’inizio alla fine, svolgendo l’argomento fin nei particolari, e poi verso la metà sopraggiungono aforismi degni di una saggista che vuole spiegare il senso della vita attraverso rimembranze, intrecci senza una collocazione narrativa e stralci di poesie il cui rapporto col resto del testo è da interpretare. Le situazioni non ingranano, rimangono una patina primordiale che sfuma in una lunga serie di riflessioni le une dentro le altre, che prendono direzioni psicologiche che si discostano dalla base da cui erano partite e che chiudono il capitolo con un nulla di fatto per quanto riguarda la trama vera e propria.
L’ho visto più come un diario caotico, uno sfogo vagamente auto incensante che spazia in troppi argomenti e non risolve nessuno dei quesiti che sorgono spontaneamente durante la lettura, salta da un accadimento all’altro ma tende ad aggirare il nocciolo che fa da perno, come se si preferisse lasciare l’ennesimo alone di dubbio, l’ennesimo buco nero glissando per evitare di esprimere davvero un’opinione.
Per dirla con un solo termine: inconcludente.
D’altro canto sono riuscita ad apprezzare lo spirito che ha animato la Winterson durante il periodo della sua crescita intellettuale, la sua impronta femminista e soprattutto i suoi ragionamenti sulla narrativa in rosa, e sul fatto che le autrici donne sono benissimo in grado di scrivere di questioni non strettamente sentimentali, ma anche loro sanno avere una visione letteraria molto più ampia. Cosa che negli anni della giovinezza dell’autrice non era neppure concepita.
Insomma, il mio voto per questo libro è totalmente neutro perché è un’opera che piace o non piace per via della sua costruzione atipica. È un romanzo, è un’autobiografia, è un saggio, è una raccolta di memorie, sono pagine di diario che racchiudono diversi stati ed epoche di pensiero che si evolvono, si intrecciano e si richiamano senza seguire un percorso definito, e che celano un atavico timore di affrontare la realtà nel modo scabro e netto che io mi ero aspettata, preferendo la via del ricordo, delle speranze e dei rimpianti velati di romantica amarezza.
Consigliato a chi ha già letto qualcosa della Winterson e ha apprezzato il suo stile.


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