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Recensione: “Ricordati di sognare”, di Rachel Van Dyken

Creato il 02 febbraio 2015 da Ceenderella @iltempodivivere

Sono arrabbiata, con questo libro. Tanto vale che ve lo dica subito. C’erano tutte le potenzialità perché mi piacesse. Certo, non sarebbe schizzato in cima alle vette dei miei preferiti ma di sicuro avrebbe reso piacevole una serata grigia e piovosa. E no, non è stato così, anzi, è successo praticamente l’opposto. Ma dovevo aspettarmelo, non si campa sempre di soli bei libri e qua sopra vi stavo abituando male!
In tutto ciò, avete programmi per San Valentino? Perché non lo passate con nove bei maschi di carta proposti da altrettanti blog? Seguite le tappe qui!

download (2)Titolo: Ricordati di sognare
Titolo originale: Ruin
Serie: Ruin #1
Autrice: Rachel Van Dyken
Traduttrice: Francesca Toticchi
Editore: Nord
Anno: 2015
Pagine: 334

Per due anni, è come se non avessi vissuto; ero persa in un baratro di dolore, da cui credevo non sarei più riemersa. Poi ho incontrato Wes Michels. Lui è il raggio di sole che ha squarciato le tenebre della mia esistenza, la luce che mi ha ridato la speranza e la forza di ricominciare. Mi sono affidata ciecamente a lui, anche quando tutti mi dicevano di non farlo: Wes è troppo ricco, troppo impegnato a diventare la nuova stella del football e, soprattutto, troppo corteggiato per rimanere fedele a una ragazza come me. Non sanno quanto si sbagliano. Non conoscono il suo cuore e sono all’oscuro del suo segreto. Su una cosa però avevano ragione: non avrei dovuto innamorarmi di lui. Ho paura che, se resterò ancora una volta sola, sprofonderò di nuovo nel baratro. Perché adesso so che ogni giorno passato con Wes potrebbe essere l’ultimo…

Ci sono dei libri che sulla carta hanno delle buone premesse, non di quelli che ti lasceranno dentro qualcosa in maniera permanente, ma che fanno presagire che in loro compagnia trascorrerai delle ore piacevoli – ché, in fondo, è questo che si cerca nella letteratura d’evasione. Perciò, capirete che, nonostante qualche critica che mi era giunta da alcune ragazze americane che seguo su Goodreads, avevo ottime aspettative per questo libro: mi sbagliavo.
Al momento, sto facendo una fatica immane nel ricordarmi dettagliatamente ciò che succede e, se non avessi il Kobo sottomano ad aiutarmi, tutto sarebbe già scomparso in una nube di fumo. A cominciare dai personaggi, in particolar modo dalla protagonista, Kiersten. Al primissimo giorno di college, ben lontana dall’essere pronta ad affrontare situazioni e ambienti nuovi e sconosciuti, si scontra – letteralmente – contro quello che scambia per un albero (non sto scherzando, ve lo giuro) e che si rivela essere un ragazzo, Weston Michels per la precisione, possessore di una discreta tartaruga di addominali che lei non manca di tastare bellamente e di due adorabili fossette ai lati della bocca. E, secondo le voci di corridoio, stupratore impunito. Cosa che, a quanto sembra, non crea alcun problema per Kierstin, la quale liquida la faccenda con un’alzata di spalle e la ferma volontà di credere a lui quando dice di essere innocente.
State storcendo il naso? Perché io stavo per prendere il Kobo e lanciarlo dalla finestra, se non fosse che mi è costato due anni di attesa e ha appena compiuto un mese di vita. Ma, insomma, non è solamente il prendere per vere le parole di quello che nel giro di cinque minuti diventa il sole del suo universo che mi ha irritata, è più che altro l’aver inserito un tema delicato e averlo lasciato cadere nel giro di qualche capitolo come se niente fosse solamente per darci l’immagine di bad-boy; non solo: è anche l’aver messo in bocca alla protagonista frasi di dubbio gusto sul modo secondo cui una ragazza “normale” dovrebbe vestirsi o comportarsi per non essere additata come prostituta. Viviamo purtroppo in società in cui una donna ancora oggi deve sentir alludere, se non dire esplicitamente, che forse un po’ se l’è cercata, che quella gonna era forse troppo corta, che forse ha detto qualcosa che lasciava intendere che… e io, da persona prima e da donna poi, mi rifiuto di sottostare a mentalità di questo tipo, a personaggi, ragazze soprattutto, in questo caso Kierstin, che decidono di non mettere la gonna perché fa zoccola e che pensano che truccarsi sia da puttana. È degradante, insopportabile e umiliante; per chi legge, per chi scrive, per il messaggio che implicitamente  – e magari anche involontariamente – si convoglia e che pregiudica un testo che, altrimenti, avrebbe potuto essere carino, con una storia capace di mozzare il fiato in più punti. Perché le carte in regola la Van Dyken le ha tutte: il problema è che le gioca male.

«Il punto è che devi goderti la vita.»
Era la prima volta che qualcuno mi dava il permesso di farlo. Avevo sempre avuto la sensazione che dovessi soffrire, perché loro avevano sofferto. Stupido, eh? Ma è la condizione umana a esserlo. Ci torturiamo per provare sollievo. Ed era esattamente ciò che facevo io: mi torturavo perché la vita era ingiusta.
«Smettila», disse zio Jo in tono deciso.
«Smettere cosa?»
«Smettila di pensare.»
«Io non sto…»
«Invece sì. Tesoro mio, i tuoi genitori avrebbero voluto che ti divertissi. Avrebbero voluto vederti fare cose folli. Loro amavano il rischio. Tu, invece, continui a farti del male rintanandoti nel tuo guscio. Solo che quel guscio non ti protegge dalle cose brutte.»
Ed eccoci arrivati al nocciolo della questione.
Vivevo nel terrore. Volevo poter controllare ogni cosa. Se avessi avuto il controllo di ciò che mangiavo e indossavo, se avessi avuto il controllo di ciò che facevo, delle persone con cui parlavo, forse avrei potuto evitare la sorte che era toccata loro.

Leggendo Ricordati di sognare si ha l’impressione che tutto sia affrettato, che si voglia velocizzare eventi e rapporti pur di arrivare a un traguardo dal quale la vicenda prenderà un’altra, inevitabile piega. Di conseguenza l’insta-love dei due protagonisti è davvero – davvero – troppo incredibile e non si ha la minima idea del come e del perché sia successo. Passi una cotta, dovuta, da parte di Kierstin, al non aver mai avuto uno straccio di amico né essersi mai sentita attratta da qualcuno e all’aver alle spalle un’infanzia travagliata trascorsa a incolparsi della morte dei genitori, così come, da parte di Wes, da quel conto alla rovescia che sta scandendo tutte le sue giornate e lo obbliga a essere la migliore versione di sé possibile (e questo implica anche l’aiutar lei a uscire dal guscio e sperimentare cose mai fatte), ma l’innamoramento cieco e totale mi è parsa una forzatura pazzesca per una storia che avrebbe potuto parlar di speranza e rinascita lo stesso senza per questo obbligarci a un flash-forward di due mesi che penalizza l’approfondimento della loro relazione e dei loro caratteri. Si è costretti a non capirli, a non sentire quel tormento che anima lui e lo fa dibattere su quanto sia giusto coinvolgere nella sua vita una ragazza già segnata ben sapendo che non ci sarà alcun futuro ad attenderli, a non comprendere come la presenza di Wes aiuti lei a lenire un decennio di ansie e paure. Non arriva niente e niente rimane: non è un caso se mi ricordo pochissimo di quel che succede se non le cose che mi hanno dato fastidio. È come se ci fosse, da parte dell’autrice, una gran voglia di buttare nella mischia temi forti, di grande impatto emotivo – lo stupro, il tumore di Wes, gli attacchi di panico di Kierstin, il dibattito su quanto sia legittimo nasconderle qualcosa di così grande – e poi si scordi di sviscerarli e darne una spiegazione. Per dirne una: per l’intera durata della narrazione ci si prepara alla grande e sconvolgente rivelazione di Weston e invece non succede nulla, le premesse del prologo non vengono rispettate. Di nuovo, non è tanto il fatto che ci si aspetti qualcosa che non succede, è piuttosto il non avere, per l’ennesima volta, una motivazione logica. Semplicemente è così e come tale va accettato. Come il finale di Breaking Dawn: aspetti per un’intera trilogia lo scontro finale coi volturi, immaginando che sarà grandioso, e la faccenda viene risolta con una chiacchierata. Stephenie, ma ti pare?

Cominciò a sussurrarmi all’orecchio, facendomi il solletico: «Voglio che ogni volta che chiudi gli occhi – non importa dove sono io e dove sei tu – ti ricordi questo». Intrecciò le dita alle mie, mi prese la mano e la premette contro il suo petto. «Ovunque io sia, qualsiasi cosa stia facendo, che sia vivo o morto, giovane o vecchio, il mio cuore sarà sempre accanto al tuo. Ogni volta che senti il tuo cuore battere, sono io che ti chiamo. E tu rispondi. Siamo noi due che parliamo, comunichiamo, uniti in questo legame. Insieme, Kiersten. Siamo noi due insieme. Ci potrebbero essere momenti in cui il tuo cuore dovrà battere anche per il mio… e tu dovrai resistere, anche per me. Io farò lo stesso per te. Uno di noi due resisterà sempre per l’altra. Per cui non c’è motivo di preoccuparsi del tempo che passa, perché per noi due non esiste.»

Non sono sicura di essere riuscita a ragionare razionalmente, visto e considerato quanto sia ancora indispettita da queste pagine; quel che so è che avrei voluto di più. Avrei voluto sapere cos’è successo quella notte che è fruttata a Weston un’accusa di abuso sessuale, avrei voluto che la questione del passato di Kierstin venisse approfondita e non scomparisse dal giorno alla notte, avrei voluto conoscere meglio gli altri due personaggi principali (la coinquilina di lei e il cugino – che ho creduto gay per metà libro salvo poi scoprire che è innamorato di Kierstin), avrei voluto che della malattia di Weston si seguissero le fasi finali travagliate, avrei voluto più tempo, in generale, più approfondimento. Per conoscerli e capirli. Ma non c’è stato concesso e tutto quel che di bello mi rimane sono una spropositata tenerezza per il signor Michels e tanto affetto per quello zio burbero ma di gran cuore che è JoBob. Peccato, perché i proventi della vendita del libro negli USA sono devoluti al finanziamento delle cure per lo zio dell’autrice, malato terminale di cancro, e il messaggio di speranza che viene lanciato è delicato e dolce. Solo che non raggiunge la superficie e rimane a galleggio assieme a tutti gli altri.

Voto: ❤❤


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