Titolo: Ritratto disarmatico
Autore: Cristiano Mattia Ricci
Editore: Sigismundus
Anno: edizione 2012
ISBN: 9788897359173
Formato: libro
Lingua: italiana
Numero pagine: 56
Prezzo: € 7,00
Genere: Poesia
Voto:
Contenuto: Come si esegue un ritratto? Anzitutto prendendo una posa, come prima di uno scatto fotografico. Questione d'inquadratura: esattamente come lo è per Cristiano Mattia Ricci, poeta-artista-architetto che, per descriversi, comincia appunto dall'immagine e dunque da una citazione di Dario Villa sulla fotografia [...]. Vicende che s'intrecciano 'Per celebrare l'invece dell'invenzione personale della realtà', e 'Dunque - scrive il poeta - questo mio essere realtà che si duplica nelle pagine/che si dimentica di dove è appena stato e dove andrà/ e dove ancora non è nato torna a parlare/con formula incompiuta del suo nulla' (Dalla Prefazione).
Recensione: Ho letto questa raccolta un paio di volte. La prima volta ha prevalso la fretta, unita a una sorta di spaesamento che mi ha impedito di coglierne il significato. Non bisogna dimenticare, infatti, che il ritmo della lettura di un testo poetico è completamente diverso da quello che un testo narrativo permette. A confondere le acque ha valso il tono prosastico, se non colloquiale e discorsivo, di alcuni componimenti.
La seconda lettura, più attenta e scrupolosa, non ha tuttavia dissipato del tutto le perplessità iniziali. Credo d'aver capito quale sia il loro fondamento. Una certa responsabilità la attribuirei alla prefazione, di per sé fuorviante. Ma anche no.
Direi che sia controproducente anteporre un proemio che non provenga dal poeta, veicolando e vincolando con ciò l'interpretazione del lettore. Il dilemma è rilevante: a partire dalla scuola ho sviluppato serie difficoltà nell'avvicinarmi a un testo poetico, a causa di commenti preconfezionati che non ammettevano deviazioni. Sì, d'accordo, può anche essere vero che le poesie qui raccolte fissano alcuni momenti in istantanee, offrendoci qualcosa di statico; è vero che si predilige una dimensione narrativa, prosastica. Ed è plausibile che l'autore offra di sé un'identità che è un tutt'uno con le cose che gli stanno intorno. Siamo sicuri, però, che i tratti evidenziati rappresentino pregi e non difetti dell'opera?
Quando, nella prefazione, citando una poesia si dice che i componimenti narrano
vicende che s'intrecciano "Per celebrare l'invece dell'invenzione personale della realtà..."
mi sono perso. Poco importa si tratti di un richiamo dotto con tanto di riferimento bibliografico in nota alla poesia stessa. Non ho capito. Le poesie non devono contenere note esplicative, devono parlare da sé, essere ragion sufficiente di quel che sono e dicono.
La prima poesia, Docilmente oggi è stilisticamente raffinata, come altre che seguono. Dà il "la" alla raccolta anteponendo il sé del poeta, compiuto, prevedibile e finito, a un mondo troppo vasto, caotico, indefinito perché in pieno divenire.
Ne Un treno il poeta dà inizio alla sua fuga con una corsa, rapportandosi a qualcosa di più concreto, appunto a un treno cui somiglia nel gioco infantile fatto di onomatopee e slanci. Ne imita gli sbuffi, il fischio, l'uno ha i piedi per terra, l'altro il limite di una direzione tracciata dalle rotaie. Per un piccolo tratto, e le giuste scarpe, si può persino competere e condividere quel po' di polvere alzata lungo la strada.
Da qui in poi è un tutto discendere, rimpicciolire, un rinchiudersi senza soluzione. Dopo il mondo, dopo il treno, ecco un ferro da stiro, che si può tenere in mano, il quale scorre non in mezzo a rotaie ma tra panni e camicie. Se entrando in casa il poeta apre tutte le porte, è solo per sondare gli spazi entro i quali si rinchiude, votandosi a un'esistenza casalinga, domestica se non addomesticata.
Ne L'insieme dei fasci di luce, tra oggetti, arnesi e utensili, le presenze che si muovono per casa appaiono sfuggenti, eteree, si incontrano solo quando fanno rumore. Le cose appaiono come tramite, attribuendo consistenza al proprio corpo, al proprio sé. Inquietante è la totale assenza di comunicazione diretta tra gli individui, che (in Sole, suoni e parole):
Sputano trasognati e approfittano, bestie assetate,/della cronica mancanza di sole, suoni e parole tra gli umani.
Si giunge quindi ad altri componimenti, di per sé prosastici, simili a veri e propri recitativi. Ritratto disarmatico sembra quasi tirare le fila, spiegare, rettificare, precisare. Il poeta è fotografato (ma da chi?) nell'atto di fotografare a sua volta e comporre immagini.
Anche ne Il silenzio della lingua il tono narrativo prende il sopravvento.
Il poeta predilige un universo circoscritto, comodo se non accomodante, fatto di corridoi, stanze e anfratti:
Cammino poco dopo per le strade di casa...
Così facendo il mondo esterno viene archiviato. Le sue vicende si seguono dinanzi a uno schermo televisivo. Per il resto le tapparelle sono serrate, il poeta dà un ritratto di sé nel chiuso della propria gabbia. Perché di questo si tratta. Ciò è dimostrato dalla cravatta che indossa nel seguire la messa alla televisione, nell'accendere tutte le luci artificiali, nel fotografare una lampada allogena che lo illumina, come se essa fosse il solo e unico testimone della propria esistenza.
Allora capiamo ciò che il prefatore sembra avere frainteso. E lo spiega bene il poeta nell'impugnare con forza e ostinazione un ferro da stiro. Solo allora, o quando su di sé ha fasci di luce allogena, sa di esistere. Ha bisogno di luce per dissipare le ombre, distinguersi tra gli oggetti, i manufatti che ha intorno.
Un' ode al mondo degli oggetti, ai manufatti, ecco cos'è questa raccolta, come se avessero la ragion sufficiente di divinità illuminanti. Un modo geniale, in fondo, ma inconsapevole da parte dell'autore, di rovesciare l' esse est percipi di Barkeley(1) o addirittura il cogito ergo sum di Cartesio, dove la res cogitans più che provare l'esistenza di colui che pensa, predica l'esistenza di un oggetto. Chi pensa, pensa a qualcosa, e questo qualcosa, che è pensato, esiste. Ma a questo punto anche il pensiero diventa un terzo incomodo se non un surplus: ne L'insieme di fasci di luce si giunge a significare che io esisto perché mi illumina un fascio di luce (allogena). Il tutto tenderebbe quasi verso una fredda fenomenologia fine a se stessa. Non so quanto voluto o prospettato dall'autore.
La seconda parte non fa che rafforzare le impressioni fin qui riportate.
Una partita a basket diviene il sunto di movimenti che attribuiscono consistenza al corpo. Corpo che è presenza frammista ad altre, destinata a commutarsi in assenza, perché priva di peso e fatica, di consapevolezza, di senso, votata al nulla.
Quello che viene fuori è sicuramente un ritratto, sia pure disarmatico e disarmante il quale alla fine esclude il soggetto che sfuma tra i versi, perdendosi nella materialità senza conquistare una nuova dimensione e anzi perdendo irrimediabilmente la propria.
Non si tratta certo di un ritratto divertente, piuttosto inquietante, dato che coglie nel vero una realtà succube e piena di sé. Il verso diviene un mantello dell'invisibilità, dal quale non traspare niente. E anche le cose che vorrebbero sopravvivere a chi le ha create e immaginate (si parla in fondo di manufatti, di prodotti dell'uomo) alla fine scompaiono insieme al proprio demiurgo.
Se qualcosa rimane, è ciò da cui si è separati nel primo componimento, un mondo magico e imperterrito, in continuo divenire, aperto probabilmente all'infinito da cui ci si è esclusi. Un infinito che col suo peso dà scacco a un essere compiuto, definito, prevedibile e finito (il poeta, l'uomo). Poco importa se questi si rinchiuda nel proprio domicilio, nella propria roccaforte. Difficile, anche così, che rimanga un ritratto leggibile, sia pure disarmatico.
L'opera non può dirsi riuscita perché fortissima è l'impressione che l'autore plus dixit quam voluit. Il senso stesso del titolo, come ricostruito dalla prefazione, sembra contraddire il senso qui ricostruito.
(1) Esse est percipi significa a soldoni che un albero esiste solo perché io lo percepisco. Nel senso qui trasfigurato, io esisto perché vedo l'albero, l'albero è la garanzia della mia esistenza. Se non percepissi nulla di ciò che è al di fuori di me, non avrei coscienza di me. E di per sé il cogito ergo sum di Cartesio sarebbe problematico, perché se penso, penso sempre a un oggetto di cui predico l'esistenza.