Recensione: Shotgun Lovesongs, di Nickolas Butler

Creato il 28 novembre 2014 da Mik_94
Quando non ho nessun posto dove andare, torno qui. Torno qui e ritrovo la mia voce come qualcosa che mi è scivolato dalle tasche. Qui riesco a sentire le cose, il mondo pulsa in maniera diversa, il silenzio vibra come una corda pizzicata milioni di anni fa. Come fai a spiegarlo a qualcuno che ami? Cosa succede, se poi non capisce?
Titolo: Shotgun Lovesongs Autore: Nickolas Butler Editore: Marsilio Numero di pagine: 317 Prezzo: € 18,00 Sinossi: Henry, Lee, Kip e Ronny sono cresciuti insieme a Little Wing, una cittadina rurale del Wisconsin. Amici fin dall'infanzia, hanno poi preso strade diverse. Henry è rimasto nella fattoria di famiglia e ha sposato il suo primo amore, mentre gli altri se ne sono andati altrove in cerca di fortuna. Ronny è diventato una star del rodeo, Kip ha fatto i soldi in città e il musicista Lee ha trovato la fama ma ha avuto il cuore spezzato. Ora tutti e quattro sono tornati in paese per un matrimonio. Ma vecchie rivalità si insinuano nel clima di festa e nella felicità del ritrovarsi, e il segreto di una moglie minaccia di distruggere un matrimonio e un'amicizia. "Shotgun Lovesongs" è un vibrante inno alle cose che contano davvero nella vita, l'amore e la lealtà, il potere della musica e la bellezza della natura.                                    La recensione Questo romanzo. 
Per parlarvene rimanderei all'estate che deve venire. Vi inviterei da me, ad agosto, e ci accamperemmo in mezzo ai falò che le spiagge popolose ospitano in onore del Santo Patrono. Il mare al buio è uno spettacolo non per tutti. Raro. Troveremmo un posto per noi, allora. Due ceppi di legno e un po' di alcol per vedere divampare un fuoco alto così. La chitarra chi è che la porta? Io non la so suonare, ma mi servirebbe. Farebbe da accompagnamento. Sotto gli arcobaleni di fuochi che esplodono nel cuore della notte, tra il fumo e i bagni in mare quando non riesci a vedere neanche a un palmo dal tuo naso, vi canterei un po' questo libro: come si fa con una canzone. Io non so cantare, a dirla tutta, ma una volta mi sono sentito in una registrazione. Facevamo gli scemi con il microfono, alle giornate ricreative. L'orchestra della scuola suonava The Scientist. Non avevo riconosciuto la mia voce, sentendola. Avevo rubato il cellulare ai paparazzi, lì, e cancellato quel video incriminante. Non l'ho mai detto a nessuno, ma mi era piaciuto. Non riconoscermi. Emozionarmi per quel timbro impreciso e cupo che, più che cantarla, parlava la canzone; capito? Avevo scoperto che sentirmi cantare era meno imbarazzante che sentirmi parlare. Nei video dei compleanni, da allora in poi, al massimo canto. Tanti auguri a te, Perché è un bravo ragazzo, una cosa qualsiasi. Shotgun Lovesongs è il mio romanzo all'improvviso di quest'anno corto. Fa venire voglia, ma una voglia matta, di imparare a suonare uno strumento e cantare a squarciagola, mentre strimpelli alla cieca e storpi a modo tuo un capolavoro. E di diventare famoso e di tenertele per te la fama e gli screzi che comporta. Fa sentire il bisogno di farti un taguaggio a forma di chiave di violino sotto l'orecchio e ballare scalzo alla prossima festa a cui vai. Non ha niente da dire. Ma quel niente... be', quel niente te lo dice come fosse una straordinaria poesia. E non una poesia di quelle piene di parole strane che non capisci e che i grandi ti ordinano o ti hanno ordinato, in passato, di imparare diligentemente a memoria. Una poesia, dico, di quelle se non le dici a voce alta ti fanno male. Bruciano dentro come l'inferno e vogliono essere libere, farsi nuvola insieme al tuo fiato a novembre. Shotgun Lovesongs vuole essere cantato e basta. Richiede un giro di do, falsetti strozzati e dolenti che ti escono dalla gola come singhiozzi sordi. Dove non arriva la voce, abbiate fede, sopraggiunge l'emozione. Quella dice tutto. Quella compensa a una nota troppo tremula. Quella ti libera e ti imprigiona. Un bar si fa casa, una fabbrica una chiesa. Ci si scambia le fedi, si divorzia. Ci sono tre matrimoni e una separazione e mezzo. Ci si conta le ferite di guerra; si ride perché si è ammesso a denti stretti di volersi tanto bene, come fanno le femminucce; si filosofeggia sul fatto che “paese che vai, amore che trovi”. 
Si mira a un barattolo pieno di schifose uova sottaceto, nelle risate generali. Galleggiano lì da anni, sembrano occhi. Quanti sono? Possiamo rubarle? Spostato, il barattolo lascia un'impronta nella polvere. Shotgun è quell'impronta a forma di cerchio infinito. Una canzone del sud. Roba campagnola. Roba da contadini per scelta e da rockstar per sbaglio. Ve lo canterei in rima. Storia magica di quattro amici; quattro amici diversi come le quattro stagioni. Uno che mette in musica i colori dell'alba, uno che non capisce com'è che si fa, uno che urlando si elegge re del mondo su un silos in rovina, uno che ha picchiato forte la testa e, adesso, la sua vita è tutta un boh. E c'è una città incredibile che ha una voce che dice loro di tornare a casa, finalmente. E ci sono le mogli che preparano la cena e quelle che rammendano, quelle che si spogliano dei vestiti e quelle che si vestono di vecchia vegogna. I personaggi, tra i più intensi incontrati in un anno di libri, ti dicono ciao come pochi e ti sussurrano addio, complici e commossi, come nessuno. Non toccano il cuore. Il cuore non c'entra. Lasciatelo agli autori di aforismi, alla finzione letteraria. Ai raffinati. Questi ti artigliano lo stomaco, ti catturano la pancia. Shotgun Lovesongs ti ribolle caldo nelle viscere. Come quando, ai cinquant'anni di matrimonio, mio nonno baciò la mano di mia nonna, alla fine della cerimonia. Niente di romantico, nulla di delicato. Quell'uomo vecchio e appesantito prendeva la mano di sua moglie tra le sue e la soppesava, prima di portarsela alla labbra, come fosse un mattone. 
Un pezzo di pane. Una cosa dura, concreta, solida. Il primo mattone della prima casa. Eppure l'amore c'era. Eppure l'amore continua a esserci. Canterei, io, di correrti ad infilarti una camicia di flanella sui pantaloni del pigiama; di creare la giusta atmosfera con una lampada che fa una luce di quelle dolci e di metterti accanto un caffè bollente che esala odore di cose positive e bei buongiorno. Metti su, coraggio, quella ballata che ti ricorda qualcosa di te e sentiti, sprofondando nella lettura di un romanzo che vive di pallottole e cuori stanchi, a casa tua. Hai fatto una lunga strada: goditi la permanenza. Riposati. L'esordio di Nickolas Butler – uno di quei tipi nerboruti, dall'invidiabile barba curata e compatta; fighissima - è davvero bello. Scritto da Dio, o forse da Neil Young, Johnny Cash, Bruce Springsteen. Che poi non è lo stesso? I cori, le voci ora basse e ora sottili, i tamburelli da scuotere e i violini da imbracciare. Butler ti mette in mano un strumento – una diamonica, un flauto dolce, una armonica, un cavolo di triangolo che facevi tintinnare alle recite – e suoni anche tu anche se non vuoi. Il ritmo ti trascina; la musica ha bisogno di te o tu di lei? Così ti fai trasportare, ti lasci andare a dorso di un jukebox vecchissimo che divora muffa e gettoni. Fingi che quella birra d'oro e schiuma ti abbia dato un po' alla testa, ché quando sei brillo non sei più tanto in te e a volte è bello. Essere consapevoli di essere non tanto in te. A metà tra l'estasi e l'invasamento da mistica bettola rumorosa. Ritornare dove sei cresciuto, dove sei stato stupido, giovane e forte, e sentirti il caldo del sole nelle ossa. 
Questa è casa mia. Questo è il primo posto che ha veramente creduto in me. Che crede ancora in me. Il mio voto: ★★★★★ Il mio consiglio musicale: Kodaline – High Hopes

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