Titolo: The Blade Itself
Autore: Joe Abercrombie
Editore: Gollancz Fantasy
Genere: High Fantasy
ISBN: 978-0-575-07979-3
Prezzo: 8,99£
Numero pagine: 515
Salve, scrittevoli lettori, qui è il vostro Ewan che, dopo un esecrabile periodo di silenzio stampa, torna a scodellarvi la recensione di un romanzo fantasy. High Fantasy, per la precisione, uno di quei libri con cavalieri, damigelle, maghi e guerrieri. Un libro che mi sono fatto arrivare direttamente dall’Inghilterra e che mi sono pappato tutto in inglese, perché, pur essendo stato scritto nel 2006, qua da noi non è ancora stato tradotto, né si intravede all’orizzonte la possibilità futura che questo accada.
Ho voluto fortemente leggere The Blade Itself, e questo può significare che il romanzo è davvero buono, oppure davvero pessimo.
Quale delle due? Scopritelo dopo il salto.
Anzi, prima della reccy vera e propria lasciatemi spendere due parole, mie venerati scrittevoli, sulla Sindrome da Abbandono di una Saga Fantasy. È dura dire addio a una saga fantasy, ma purtroppo capita. I libri non sono soap opera (non tutti, per lo meno) e prima o poi giungono a una fine. Può essere un addio definitivo, un addio definitivo ma-aspetta-che-scrivo-uno-spinoff, oppure un lungo arrivederci al prossimo romanzo che se tanto mi dà tanto sarà pubblicato nel 2017. Sì, sto parlando delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin, mio ultimo fetish letterario che ho recentemente concluso dopo aver letto A Dance with Dragons.
Mi è successa la stessa cosa quando ho finito Harry Potter, sapevatelo. Ma questa volta ho imparato dagli errori del passato.
Cosa si fa, dunque, quando si termina una serie di libri che ci è piaciuta così tanto che, almeno per un po’, qualsiasi cosa si legga, al confronto, impallidirà? Si legge qualcosa di simile.
Dunque quello che mi serviva era un fantasy che si discostasse dai canoni classici dell’epic fantasy pur senza rinunciare all’epicità della storia, che fosse caratterizzato da una moralità a tratti cinica e sicuramente ambigua, che presentasse eroi fallibili e imperfetti e che sprizzasse violenza da tutti i pori. Roba facile da trovare nel panorama letterario italiano, eh?
Difatti mi sono dovuto rivolgere al mercato inglese, nella persona di Joe Abercrombie, uno scrittore britannico il cui romanzo d’esordio, The Blade Itself, il primo della trilogia della Prima Legge (The First Law Trilogy), sulla carta (passatemi l’orribile gioco di parole) era esattamente quello che stavo cercando.
The Blade Itself si è dimostrato all’altezza delle mie aspettative? Vediamolo subito.
The Fellowship of the Seed
Why do I do this? Perché lo faccio? È la domanda che si pone costantemente l’inquisitore Glokta, uno dei tre personaggi principali, per tutto il corso del romanzo. E comincio a chiedermelo anch’io.
Perché mi imbarco nella lettura di trilogie i cui volumi, presi separatamente, non hanno un briciolo di autoconclusività?
Questa volta credo di aver trovato una risposta. Lo faccio perché, di tanto in tanto, mi imbatto in un libro come The Blade Itself di Joe Abercrombie.
Un potente e misterioso mago errante raduna a sé una compagnia eterogenea composta da eroi improbabili. C’è un barbaro esiliato dalla sua patria, un giovane cavaliere dai nobili natali, un apprendista impacciato, una donna guerriera che non si fermerà di fronte a nulla pur di ottenere vendetta, e un esperto navigatore tanto abile a tessere le proprie lodi quanto codardo e inetto nel combattimento.
Come dite? Sembra l’inizio di qualsiasi romanzo high fantasy scritto dal Signore degli Anelli in poi? Una roba che neanche un essere mitologico con la testa di Licia Troisi, le braccia di Chiara Strazzulla, il torso di Sergio Rocca e le gambe di Alessia Fiorentino sarebbe riuscito a partorire perché, perfino per quelli che sono considerati i Grandi del panorama fantatrash italiano, sarebbe stata un’idea troppo banale?
"Me... volere... elfi... yaoi...!"
Proprio così. Ma ci sono due sottili differenze.
Punto primo: la compagnia che viene riunita dal potente mago Bayaz, a differnza di moltissime altre, funziona.
Punto secondo: la storia termina con la riunione della compagnia.
Ma come, posso sentirvi recriminare, proprio tu che ci fai sempre due palle quadrate con la trama che è molto più importante dello stile, osi recensire positivamente un libro che di trama non ne ha per niente?
In tutta franchezza, se è vero che sono disposto a concedere il mio favore a un libro scritto magari in maniera non perfetta (ma non così male da distrarmi dalla storia) piuttosto che a un capolavoro di show don’t tell e menate varie che tuttavia non coinvolge ed è noioso come le prediche della domenica, posso di tanto in tanto fare il contrario. Perché sì.
Con questo non voglio dire che The Blade Itself non abbia una trama o che non succeda niente. Ci sono decine di combattimenti sanguinosi e divertenti e ogni personaggio vive la sua buona quantità di avventure prima di incrociare la propria strada con quella dello stregone Bayaz.
Il conflitto principale è lasciato intuire, più che palesemente rivelato. Si sa che c’è una guerra tra l’Unione e il Nord, e che c’è un Malvagio Imperatore che è solo il burattino di un ancora più Malvagio Signore Oscuro. C’è una pesante scatola dal contenuto misterioso, un’arma leggendaria che tuttavia nessuno usa e un non meglio identificato “Seme” (The Seed) che a me sa di un MacGuffin grande come una casa. Il resto non è dato sapere.
Il magico mondo del fantasy
Ci sarebbe anche un terzo punto da aggiungere ai precedenti, in effetti. Un punto bonus, se vogliamo. Il romanzo funziona perché Joe Abercrombie, come George R.R. Martin prima di lui, gioca non tanto ad attenersi ai tòpoi dell’high fantasy, quanto piuttosto a sovvertirli.
E allora quello che dovrebbe essere un valoroso giovane cavaliere dall’armatura lucente, in realtà si rivela essere un individuo insopportabile e snob che a me ha ricordato molto Richard Rahl di goodkindiana memoria. Solo che, a differenza di Richard, fare di Jezal dan Luthar un personaggio irritante era nelle intenzioni del suo autore. Similmente, il potentissimo mago si scopre essere un personaggio molto più oscuro di quanto dovrebbe esserlo una versione cliché di Gandal e il malvagio e corrotto Inquisitore Glokta è in realtà un individuo dalla personalità sfaccettata e in perenne conflitto con sé stesso e con il suo passato.
Perfino il regno che, apparentemente, Bayaz e la sua compagnia di Unlikely Heroes stanno cercando di salvare non è il locus amœnus che un lettore abituato ai canoni del fantasy si aspetterebbe. Midderland è un calderone di corruzione e inettitudine più simile alla Approdo del Re di Martin che non alla Contea di Tolkien, a tal punto che ci sarebbe da domandarsi se valga veramente la pena di salvarlo (Why do I do this?, si domanderebbe Glokta).
Il locus amœnus per eccellenza: Molino Dorino
Tutto il romanzo è caratterizzato da una morale non convenzionale (per un fantasy eroico), fatta di diversi gradi di amoralità, più che della contrapposizione tra Virtù e Malvagità, tanto che il personaggio che rispecchia meglio un ideale di comportamento che definiremmo virtuoso non è il cavaliere dai nobili natali e dalla lucente armatura o il popolano che ha sfidato le convenzioni sociali ed è riuscito grazie al suo solo impegno a farsi un nome nell’esercito. Santa pigna, nemmeno la damigella è un esempio di virtù, visto che beve parecchio, ha una certa affinità col turpiloquio ed è sessualmente passivo-aggressiva. In realtà il più “morale” dei personaggi è proprio Logen Ninefingers, ovvero il barbaro con le mani lordate da più sangue di quanto non gli piaccia ricordare.
Why do I do this?
Quindi, tirando le somme, perché lo faccio?
Perché mi piace quando il fantasy puzza di realtà e non di shampoo elfico.
Perché i personaggi descritti di Abercrombie sono tutti interessanti. In teoria sarebbero da detestare, visto che sono uno più amorale e disprezzabile dell’altro, ma alla fine non è per niente facile farlo, perché Abercrombie è così bravo a tratteggiare nel dettaglio le loro personalità che, disprezzandoli, sembra quasi di fare un torto a una persona che ci conosce. E questa, per me, è la prova del nove per uno scrittore.
Il che ci porta al terzo motivo: perché Joe Abercrombie scrive proprio bene. Dialoghi arguti, sferzanti che fanno dimenticare l’occasionale inserimento di qualche infodump di troppo, prosa scorrevole e percorsa da una vena di perfido cinismo.
Quindi, se ne avete le cosiddette piene del solito high fantasy (che va anche bene, per carità, ma dopo un po’ rompe) e cercate qualcosa à la Martin, cioè realistico, violento, cinico, grigio e AWESOME, buttatevi senza indugio su The Blade Itself di Joe Abercrombie come ho fatto io, difficilmente vi deluderà.
Perbaccolina, è piaciuto anche a Felicia Day!