The Imitation Game, un film di Morten Tydlum. Con Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Charles Dance, Matthew Goode, Mark Strong, Roy Kinnear. Sceneggiatura di Graham Moore, ispirata alla biografia di Andrew Hodges.Alan Turing, pioniere della cibernetica e dell’infomatica. L’uomo che con le sue macchinerie contribuì alla vittoria su Hitler decodificando il sistema Enigma. Condannato per omosessualità, morto (forse) suicida. Storia enorme, già pronta per il cinema. Ma sceneggiatori e regista illustrano piattamente, confezionando il solito biopic agiografico. Occasione sprecata. Sì, c’è Benedict Cumberbatch in una di quelle performance che i signori dell’Oscar adorano premiare. Ma non basta a salvare il film. Voto 4 e mezzoGran personaggio, grande storia, mediocrissimo film. Pensare che la sceneggiatura è stata nella blacklist del 2011 (la lista dei migliori screenplay in circolazione ancora in cerca di acquirente) e poi comprata da Harvey Weinstein per la bellezza di 7 milioni di dollari. Soldi che rientreranno tutti, abbondantemente, visto il successo annunciato al box office dopo i trionfi dell’anteprima torontiana (torontesca?), review in lingua inglese in gran parte positve anzi entusiastiche, e il protagonista Benedict Cumberbatch, il film e il regista dati per molto probabili nominati all’Oscar. Sicché, quando sono andato alla proiezione stampa mi aspettavo qualcosa di importante, almeno di britannicamente solido secondo gli usi di quel cinema. Mi son trovato di fronte invece a un film che butta via l’occasione di un biopic non convenzionale e davvero appassionante sulla complicata figura di Alan Turing, matematico e crittografo, uno che con i suoi studi e le sue macchine, e le sue intuizioni e visioni, ha anticipato cibernetica e calcolo computazionale, dunque anche quelle cose che chiamiamo computer e intelligenza artificiale. Uno di quei geni da riverire e premiare con il Nobel, anche se il Nobel non l’ha mai preso, fors’anche per via della sua personalità deragliante dai canoni, e per l’omosessualità manifesta che gli valse nei suoi ultimi anni una condanna nel nome di quella legge che in Inghilterra aveva portato in carcere a suo tempo Oscar Wilde. Si sa, i biopic sono sempre una trappola, bisogna essere bravi, molto bravi per evitare l’agiografia, i toni encomiastici, l’edificazione post mortem del monumento al martire o all’eroe. Ecco, The Imitation Game nella trappola ci casca in pieno, ed è un peccato. Turing, con la sua vita tribolata e il suo talento di irregolare, meritava di meglio di questo santino in memoriam.
Il giovane Alan – siamo negli anni Trenta – è tra i più brillanti studenti di matematica al King’s College di Cambridge, nonostante quella che le cattive psicologhe d’oggidì chiamerebbero sociopatia. Insomma, un ragazzo versato nelle scienze e nella astratta bellezza delle formule matematiche quanto negato per le relazioni con gli altri umani. Impedito da una introversione chwe sfiora l’autismo. Figuriamoci le donne, lui che vive ancora nel ricordo del compagno di scuola tanto amato, e poi perduto. Scoppia la guerra e Alan, grazie alle sua abilità di crittografo, viene inserito nel gruppo che, sotto il controllo dell’esercito e dello stesso governo di sua maestà, è incaricato di decrittare il codice Emigma usato dai tedeschi per scambiarsi informazioni. Missione difficile, quasi impossibile, ma sarà Alan Turing, benché osteggiato all’interno dello stesso gruppo di lavoro e malcompreso dai suoi superiori, mette a punto una macchina calcolatrice che sembra avvicinare la soluzione. Sembra. Perché il tempo passa e quello sferragliante e ingombrante congegno, mostruoso e remoto antenato dei nostri computer da borsa, non ce la fa a craccare i maledetti sistemi crucchi. Sempre più isolato, Turing, con il quasi unico sostegno di una sua collaboratrice, una talentuosa e ostinata ragazza che ha intuito il genio nascosto dietro quel musone così strano e infelice. Tutto raccontato con salti all’indietro all’infanzia, adolescenza e giovinezza di lui, alle angherie bullistiche subite dai compagni di scuola, all’amico-angelo che unico gli darà una mano in quell’inferno, e di cui inevitabilmente si innamorerà. Verrà il trionfo, la sua macchina decritterà Enigma, ma il dopoguerra per Turing sarà pieno di affanni e delusioni. Lo sospettano di essere un informatore al soldo dei sovietici, come altri famosi gay di Cambridge passati al di là della cortina di ferro, lo arresteranno per ‘indecency’ per essersi portato a letto un marchettaro troppo giovane. Verà condannato (l’alternativa, da lui rifiutata, erano anni di galera) a una cura di ormoni femminili per spegnere i suoi insani desideri, si ridurrà a un rudere, morirà nel 1954 dopo aver addentato una mela al cianuro, e ancora oggi non è chiaro se sia stato suicidio o incidente (il cianuro Turing se lo teneva in casa per placcare posate e altri oggetti, una delle sue eccentriche passioni). Anzi, qualcuno continua a ipotizzare nella sua fine la mano dell’intellgence. Intanto, nel 2009 l’allora primo ministro Gordon Brown ha pronunciato a nome della nazione il mea culpa per come fu trattato l’uomo che diede un bel contributo alla vittoria sul truce Adolf, e due anni fa Elisabetta regina ha concesso la grazia postuma. Ecco, una storia così sembra già fatta per diventare cinema. Il guaio è che la regia di Morten Tyldum, il norvegese che si è fatto largo a livello internazionale con il successoqualche anno fa del noiraccio Headhunters, è di notarile piattezza, senza il minimo fremito e il minimo azzardo. Banalizzando anche ben oltre le semplificazioni già operate in sede di sceneggiatura (tutta la parte di Alan adolescente innamorato della crittografia e del compagno salvatore, per dire, è tremenda). Bisogna averci una’idea di cinema, e Tyldum non ce l’ha. Le cose migliori del film sono nelle discordie interne al gruppo al lavoro sull’anti-Enigma, in una solidarietà sempre sull’orlo di spezzarsi e rovesciarsi in cannibalismo. Ma certi dettagli di cattivo melodramma sono imperdonabili, come il collega di Alan che, guarda un po’ la coincidenza, ha un fratello sulla nave che sta per essere colpita dai tedesch, e che Alan si rifiuta di avvisare per non scoprirsi con il nemico. Ogni ombra, ogni potenziale ambiguità viene piallata via, per tracciare un ritratto a una sola dimensione di Alan Turing, martire gay, eroe di guerra non adeguatamente riconosciuto e risarcito, genio incompreso. Certo, perfetto per portarsi a casa qualche Oscar, ma il cinema importante è un’altra cosa. Benedict Cumberbatch conferma la sua abilità e quell’incredibile mimetismo, che gli consente di attarversare di film in film personaggi diversi e perfino opposti. Naturale favorito all’Oscat, insieme al Michael Keaton di Birdman (però se la dovrà vedere anche con Eddie Redmayne interprete in The Theory of Everything di un altro scienziato diversamente abile anche se di altra diversità dal diverso Turing, Stephen Hawking). Keira Knighltey è sempre molto bellina, molto elegante, ma il suo personaggio di amica forse innamorata forse no è quello meno messo a fuoco, e non così necessario alla narrazione. In uno dei libri usciti da noi in occasione del film, L’enigma di un genio (Newton Compton), l’autore Nigel Cawthorne smentisce una bella storia che circolava da parecchio, ovverossia che Steve Jobs si sia ispirato per il logo Apple della mela morsicata proprio alla fine di Turing. “Quanto avrei voluto! Purtroppo è stata solo una coincidenza”: Jobs dixit.
Nota: proprio ieri mi son visto in Cineteca Van Gogh di Maurice Pialat, anno 1991, capolavoro vero e misconosciuto. Raro esempio di come si fa ad evitare al cinema le trappole dell’agiografia. Imparassero, gli autori di The Imitation Game.
Magazine Cinema
Recensione: THE IMITATION GAME. Il gay che sconfisse Hitler (insomma, che diede una bella mano)
Creato il 02 gennaio 2015 da LuigilocatelliPossono interessarti anche questi articoli :
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