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Recensione: “Trentatré”, Mirya.

Creato il 05 gennaio 2015 da Chiara

A breve – ma proprio a brevissimo – esce il cartaceo. Serve davvero dirvi altro?

Non si può essere ottimisti solo quando non si rischia niente. La fiducia nel mondo ha valore proprio quando è rischiosa.

Recensione: “Trentatré”, Mirya.Titolo: Trentatré
Autore: Mirya
Editore: self-published
Pagine: 381
Anno: 2014

Giudizio: ★★★★★

Sinossi
Trentatré sono i giorni che Dio Si impegna a trascorrere sulla terra, senza i Suoi poteri, prima che Suo Figlio acconsenta ad aiutarLo nell’Apocalisse; ma scopre subito che l’umanità è un abito scomodo da indossare.
Trentatré sono i giorni di cui Grace dispone per persuadere quel vecchio pazzo convinto di essere Dio che l’universo non deve finire; ma c’è un asino dagli occhi azzurri a complicarle la vita e a lei non resta che cercare di trasformarlo in un unicorno rosa.
Trentatré sono i giorni in cui Michele deve affrontare i suoi demoni, per liberarsi del marchio di Caino e imparare di nuovo ad avere fiducia; ma c’è una rossa intenzionata a combattere contro di lui che invece forse potrebbe combattere al suo fianco.
Trentatré sono i giorni necessari a cambiare per sempre le vite del vecchio Giò, di Amir, di Juliette e di tutti coloro che ruotano attorno allo stesso locale, quel locale che in fondo può assomigliare ad una casa, come loro in fondo possono assomigliare ad una famiglia.
Perché la fortuna non è positiva né negativa, le cose migliori accadono per caso e il mondo è pieno di incastri.

Di questo libro, ormai, si è già detto tutto quello che si poteva dire. Non dico che è andato bruciato in zerodue, perché sarebbe un’immagine fuorviante, ma per quello che riguarda me e la mia rete di contatti è risultato essere sicuramente uno dei romanzi più letti e più amati del 2014. Sin dal primissimo momento della sua pubblicazione è stato evidente che le recensioni sarebbero fioccate fittissime, in una nevicata che avrebbe strappato a Grace un sorriso enorme e pieno di luce, e che tutte sarebbero state una più bella e più innamorata dell’altra. Si è letteralmente detto tutto quello che si poteva dire, lo ripeto, e dubito seriamente di poter aggiungere qualcosa che non sia banale o scontato, peggio ancora già sentito. Volendo essere breve, potrei limitare a dirmi che Trentatré è il libro più stronzo del mio 2014. Chi mi segue da subitissimo o mi conosce molto molto molto bene, sa perfettamente che quando un libro è stronzo lo è in virtù del fatto che ti fa innamorare delle sue parole, ti corteggia e ti irretisce la mente con una bellezza mozzafiato e poi, di punto in bianco, quando meno te lo aspetti, ti propina una serie di pugni allo stomaco che non fanno male, no, di più, e nonostante tutto proprio non è possibile odiarlo. Un libro stronzo è stronzo fino in fondo, dopotutto. Trentatré, in questo senso, vince a mani basse e se l’avete letto, beh, sapete perché. Se invece non l’avete fatto, l’unica cosa che mi sento di dirvi è che è decisamente il caso di recuperare.

«Da quando sei diventato così macabro?»
I figli. Ti sforzi di dar loro un’educazione amorevole e poi scopri di aver parlato al muro.
«Credo sia successo quando mi hanno piantato i chiodi nelle mani. O forse quando me li hanno piantati nei piedi. O magari dopo quella lancia nel costato… No, aspetta, sono quasi certo che sia stato quando Ti ho pregato di salvarmi e non hai risposto.»
«Non era nei patti!»
«E Tu rispetti sempre i patti, proprio come stai per fare con i Maya. Hai promesso che avresti esaudito quella loro fantasiosa profezia sulla Fine del Mondo, se loro avessero evitato di ricoprire i templi d’oro, ed eccoci qui, al 2012, pronti all’Apocalisse.»

Dio ha a disposizione unicamente trentatré giorni sulla terra, per decidere se ridurre in niente tutto il suo bel creato in virtù di un patto stretto, secoli addietro, con i Maya. Nella sua infinita grandezza, questo mese poco poco abbondante non è che un battito di ciglio che si appresta a vivere, privo dei suoi poteri, senza la ben che minima idea di quello che andrà trovando. Ed è, in un certo senso, una fortuna che sia proprio Grace ad inciampare nei suoi letterali primi passi mortali e ad accollarsi la responsabilità di quello che ai suoi occhi è un vecchietto un pelo – tanto – suonato. E siccome la vita non è altro che un insieme di fili che s’incrociano, si legano, si attraversano in una continua ragnatela di casualità, dopo con Grace verranno anche Michele, burbero e disincantato proprietario del Fortuna, e la sua insolita clientela di uomini dalle storie più disparate, destinate a intrecciarsi saldamente in un groviglio fitto fitto di emozioni, sentimenti e umanità così intenso da non poter lasciare indifferente neppure chi, umano, non lo è mai stato. E giorno dopo giorno, i nodi verranno al pettine e le trame si dipaneranno in un caos così squisitamente impacciato e complicato – in una parola, umano – al punto che Dio stesso, soprannominato affettuosamente D, inizierà piano piano a mettere in dubbio le sue convinzioni, trascinato dall’instancabile imprevedibilità della vita che egli stesso a creato, imparando l’imperfetta perfezione dalle sue creature, ritrovandosi ad amarla più di quanto non potesse credere essere possibile.

Le difficoltà. Impegnarsi per raggiungere il risultato. Il vostro corpo è uno strumento magnifico da usare, e inizio a pensare che vi ci voglia tutta la vita per imparare ad usarlo appieno e ad apprezzarlo, il che rende la vostra vita una ricerca della perfezione. Una ricerca di me, quindi. Imparando ad amare il vostro corpo, imparate ad amare me, e viceversa.

Non sono una grande fan della religione, sarò sincera, ma se Dio assomigliasse almeno un pochino a D allora – parola mia – le cose potrebbero essere diverse. Il D di Mirya lascia il segno, non si può negare: le sue convinzioni, le sue verità, il suo essere innegabilmente arrogante come solo il creatore di ogni cosa potrebbe essere si mescola a sfaccettature impreviste che lasciano a bocca aperta, dando vita ad una divinità molto più umana di quanto si sia abituati a pensare; c’è molto da imparare, in Trentatré, ma non solo sulla religione. Grace Speranza è un personaggio prezioso, dall’irruenta delicatezza che fa sorridere e un po’ disperare, ma che ci insegna a suon di capocciate che vale la pena cercare gli unicorni in un universo di asini – se non addirittura che trasformare gli asini in unicorni non solo non è impossibile, ma è anche la cosa giusta da fare. Grace, bambina dall’infanzia perduta che si sforza costantemente di cercare il bello in un mondo che le ha riservato una porzione fin troppo generosa di cose brutte. Non è possibile volerle male, neppure volendolo. Ci si può provare – una parte di me sicuramente ci ha provato! -, ma alla fine il suo candore è talmente autentico, la sua ingenuità talmente reale, che no. Non ci si riesce. Al contrario, ci si lascia contagiare dalla sua bontà un po’ innata e un po’ imparata dalla figura onnipresente, e a tratti ingombrante, della bellissima madre morta. Michele, al contrario, è facilissimo trovarlo antipatico. Anche se “antipatico” non è la parola esatta, perché l’unico modo per descrivere la reazione che la lettura di questo personaggio scatena è questo: individuo di sesso maschile da zittire a craniate – come è già stato ampiamente appurato qui. Il bel proprietario del Fortuna non solo è infelice, senza sapere di esserlo, ma è pure un grandissimo portatore involontario (più o meno) di infelicità agli altri. Proprio non ce la fa. Come Grace, anche lui è stato profondamente ferito quando non era che un bambino e in modi che un bambino non dovrebbe mai conoscere, ma dove lei si è lasciata guarire dalla speranza ecco che lui invece ha scelto di incolpare la fortuna, la ruota che dispensa tanto il bene quanto il male.

Grace lo ascoltò sorridendo e pensò che sua mamma aveva dimenticato di aggiungere una postilla alla regola della propria storia: dopo averla raccontata la prima volta, un essere umano tende a ripeterla all’infinito. Perché ad ogni ripetizione una parte di quella storia si stacca da lui, spartendosi tra tutti coloro che l’ascoltano e alleggerendo l’anima del narratore. La condivisione è la faccia nascosta dell’incastro.

Grace e Michele sono legati da un filo tanto meraviglioso, ricco di amore e possibilità, quando terribile, di ricordi e un passato che ha portato tanta sofferenza ad entrambi. Ma sono legati e il loro legame cresce sotto i nostri occhi capitolo dopo, litigata dopo litigata, bacio dopo bacio, in un gioco di equilibri fragili che non voglio stare a svelarvi più di quanto non abbia già fatto. Il loro legame è un incastro che porterà a tanti altri incastri, intrufolandosi tra altri nomi e altre storie. Amir, Consuelo, Mimì, il Vecchio Giò e Giò Giò… è difficile che un libro sia capace di farmi affezionare a tanti personaggi, e che un autore sappia rendere una piccola folla così concreta da farne sentire la nostalgia quando il libro è finito, eppure è successo. Nel momento in cui ho posato il Kobo, con gli occhi lucidi di lacrime e il cuore traboccante di commozione, ho avuto come l’impressione di aver detto addio per sempre ad una famiglia adottiva. C’è tanto da imparare dai loro errori, tanto da imparare dal modo in cui a questi reagiscono e se mai dovessi fare un buon proposito per il 2015 – in aggiunta all’unico che mi sia prefissata, ossia tornare a correre – questo sarebbe cercare di essere un po’ più Grace, un po’ meno Michele, un po’ più Consuelo e un po’ meno Vecchio Giò. E soprattutto, vorrei ritrovare la spontaneità di Giò Giò e il coraggio di non arrendermi, né scoraggiarmi, quando le cose diventano troppo difficili. O quando mi convinco che lo siano troppo, e lascio che questo mi demoralizzi e mi allontani da ciò che mi sono prefissata. E se poi D, ecco, decidesse di darmela buona, il quadro sarebbe completo, perché forse sarei pure capace di riscattarmi come Amir e guadagnarmi la serenità di cui non mi sono mai sentita all’altezza. Ma questa, bestioline, è un’altra storia.

C’è qualcosa di speciale, nell’essere normale. Guarda quello che riuscite a fare, tutti voi, senza alcun potere aggiunto.

Libri come Trentatré non hanno bisogno di tante parole per essere apprezzati. Si fanno amare da soli, senza che una babbiona come la sottoscritta ne sprechi tante – tutte inadeguate – nel tentativo di fare qualcosa che non serve fare. Non c’è un luogo preciso in cui sia ambientato, perché il suo luogo è in realtà ogni luogo. Non c’è un tempo, sebbene quello prefissato ci dica essere l’estate del 2012, perché questa storia potrebbe svolgersi in ogni tempo ed essere sempre vera, attuale. Mirya, per quel che mi riguarda, con Trentatré ha dato prova di essere un’Autrice degna della lettera maiuscola che non si limita a dar vita ad una bella trama, con belle parole e personaggi carini, ma che con un libro sa insegnare qualcosa che è suo, sa suggerire una sua idea, un suo pensiero, rendendolo parte di ciò che ha creato. L’unica cosa che vi viene richiesta, nel momento in cui ne iniziate la lettura, è il candore della neve che in questi giorni ha imbiancato l’Italia: fatelo senza pregiudizi, lasciate che sia la storia e chi la popola a prendervi per mano e condurvi lungo un sentiero che vi farà ridere, sorridere, piangere (tanto) e pensare. Non pensate alla meta, non pensate a cosa sarà dopo l’ultimo punto, quando la pagina tornerà bianca e il mondo attorno a voi esploderà in un concerto di rumori che fino ad un attimo prima eravate troppo concentrati per sentire. Pensate al viaggio, alle svolte, alle soste impreviste. Godetevelo tutto, vi sorprenderà.



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