Chi è contro il finanziamento non si accontenta dei 36 milioni di euro che il Comune di Bologna destina alle scuole dell’infanzia ma vorrebbe entrare in possesso anche del milione che invece viene destinato alle scuole paritarie (lo 0,8% del totale, di cui beneficiano 1.736 bambini), qui i dettagli. Questo la dice lunga su quanto la questione sia di stampo ideologico.
La composizione dei due schieramenti la dice lunga: da una parte economisti, giuristi, costituzionalisti e vari esperti del settore scolastico, la Chiesa e tutte le forze politiche moderate, dall’altra parte i reazionari giacobini del Comitato Referendario “Articolo 33”, sostenuti dal “Fatto Quotidiano”, da Sel, Movimento 5 Stelle, i soliti anziani rimasugli del comunismo (Sabrina Guzzanti, Augias, Rodotà, Hack, Camilleri) e qualche spaesato belloccio televisivo reclutato in fretta da Cinecittà (Scamarcio, Neri Marcorè, Golino ecc.). La cosa più simpatica è che il leader di Sel, Nichi Vendola, in Puglia finanzia le paritarie come ha fatto notare Amelia Frascaroli, assessore di Sel a Bologna (che voterà a favore del finanziamento), e lo stesso fa Federico Pizzarotti a Parma, l’unico grillino sindaco. Occorre anche sottolineare i tanti casi di discriminazione dei membri del Comitato “Articolo 33″ verso le famiglie pro-finanziamento.
Il finanziamento alla paritarie è un problema solo italiano in quanto nel resto d’Europa le scuole paritarie sono integralmente (o solo parzialmente, come in Italia) pagate dallo Stato. L’Unione Europea è apertamente a favore della libertà di scelta della famiglia e della pluralità educativa e ha quasi copiato i due articoli della Costituzione italiana in merito alla libertà d’educazione. E’ la solita fiera dell’ipocrisia: mentre sui matrimoni gay l’Italia dovrebbe adeguarsi all’Europa, sul finanziamento alle scuole paritarie invece no. Non a caso il sottosegretario all’istruzione Elena Ugolini ha affermato: «Se tu spieghi in Europa il senso di questo referendum, si metterebbero tutti a piangere, non a ridere. In Europa non esiste l’idea che tutto deve essere statale. Voglio dire, cerchiamo di capire quello che permette alle scuole di migliorare e di dare il meglio ai nostri ragazzi, chiediamoci cosa può far avere ai nostri ragazzi una buona proposta educativa e formativa».
Lasciando da parte l’imbarazzante discesa in campo del gruppetto denominato “Rodotà&Scamarcio”, abbiamo raccolto il parere dei veri conoscitori della tematica dibattuta dal referendum i quali rispondono a tutte le possibili obiezioni e domande che possono sorgere.
Nicolò Zanon, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Milano e membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ha affermato: «Il referendum è figlio del clima folle che si è creato intorno ad alcuni totem, uno dei quali è proprio l’articolo 33. Si tratta in realtà di una battaglia ideologica e di retroguardia, falsamente ricondotta alla Costituzione italiana. Io leggo che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Mi pare che a Bologna non si tratti di istituire scuole, ma di far funzionare quelle che già ci sono. Nel caso concreto non solo non ci sono oneri per lo Stato; l’amministrazione comunale, a fronte di un contributo di un milione, ci guadagna molto di più, riuscendo a soddisfare una domanda di servizi alla quale diversamente non riuscirebbe a rispondere. Siamo nel solco di una lettura forsennatamente giacobina della nostra Costituzione, già documentata in altre occasioni sia da questa battaglia antiparitaria, sia da alcune note manifestazioni pubbliche. C’è un’area culturale radical-giacobina che crede di interpretare la purezza originaria dei valori della Costituzione, in realtà la tradisce dandone una lettura fuorviante e parziale». C’è il tentativo, ha continuato, di veicolare «una laicità di combattimento, non positiva ma negativa, che chiede allo Stato una “neutralità” che non risulta affatto neutra, come invece potrebbe sembrare a prima vista, perché profondamente ostile al pluralismo religioso e al ruolo della religione nella vita pubblica. Sotto questo aspetto accusiamo un ritardo clamoroso», poiché «in tutte le grandi democrazie, a parte la Francia che si trova in questo momento in una condizione forse diversa, il dibattito pubblico tiene conto dell’apporto della religione e non nega affatto che la religione possa partecipare al dibattito pubblico e per questo possa avere un ruolo nell’educazione e nella formazione dei giovani. Da noi invece si insiste nel replicare una lettura della laicità come divieto dello Stato di favorire lo sviluppo di un pensiero plurale». Ha quindi concluso: «Il contributo che il Comune dà consente alle scuole convenzionate di mantenere delle rette ragionevoli, e quindi di allargare il diritto di scelta dei genitori meno abbienti a favore delle scuole paritarie non statali. Parallelamente il Comune ottiene che il complesso dell’attività scolastica nelle scuole paritarie non statali sia equipollente a quello svolto dalle scuole statali», e così si arriva a «tutelare il pluralismo culturale delle famiglie e conformare a precisi standard il servizio scolastico offerto delle scuole paritarie. Mi pare uno di quei pochi esempi virtuosi esistenti nel nostro paese di collaborazione efficace tra le autorità pubbliche e l’iniziativa dei privati. Volerlo abbattere sulla base di un presunto “ritorno alla Costituzione” è fanatismo. Un servizio pubblico non è necessariamente in mano allo Stato: un conto è la funzione, un conto la natura giuridica di chi eroga il servizio. Ebbene, la cosa incredibile è che ancora si debba spiegare che pubblico non è sinonimo di statale».
Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’università di Bologna e presidente del comitato pro-finanziamento, ha affermato: «i referendari hanno basato la loro campagna su informazioni sbagliate. Io voglio credere nella buona fede, però non è vero che le scuole paritarie non fanno parte del sistema pubblico: sono a gestione privata, ma la legge 62 del 2000, detta “Berlinguer”, dice che partecipano al sistema pubblico. Secondo punto: l’articolo 33, cui appunto si appellano anche nel nome del comitato i referendari, dice che gli enti privati possono istituire scuole, però “senza oneri per lo Stato”. Attenzione però, oneri viene dal latino onus, “peso”: la costituzione prevede quindi che all’ente pubblico sia risparmiato di far fronte ad un peso, non ad un semplice pagamento. Nello specifico delle scuole bolognesi, il Comune dà 1 milione all’anno, ricevendo però in cambio un servizio di 6 milioni: è quindi il contrario, l’onere è sulle spalle della società civile. In questo l’argomentazione dei referendari è ribaltata di 180 gradi, a maggior ragione se si attinge alla relazione di accompagnamento dell’articolo 33: Corbino, Labriola e Mortati, i tre costituenti che all’epoca la firmarono, spiegavano esattamente questa interpretazione della parola “oneri”. In questa fase storica di ristrettezza economica gli enti pubblici non possono prescindere dalle materne paritarie, il giorno in cui l’ente comunale si rintanasse nel proprio nucleo, questo determinerebbe un abbattimento della qualità dell’insegnamento e del servizio. I referendari hanno fatto una manifestazione in Piazza Maggiore: si aspettavano migliaia di persone, erano solo in 120. Ai bambini hanno fatto cantare “Bella Ciao”, “Il Resistente” e altre canzoni di quel repertorio: non mi vengano a dire che rispettano la libertà di quei bambini di 4 anni, che chissà se sanno la storia di quelle canzoni. Io però sono molto fiducioso: sono convinto che vinceremo, e dato che Bologna non è un paesino, sarà un bel segnale per l’Italia: qui è in gioco il bene della gente, e la stessa cosa varrà per la sanità, l’assistenza degli anziani ecc.». Ed infine ha sottolineato: «Il comune di Bologna versa un milione alle paritarie e riceve un servizio pari a sei milioni. Non ci vuole un economista per capire che il guadagno è pari a cinque milioni all’anno».
Maria Chiara Carrozza, attuale ministro dell’Istruzione e ordinario di bioingegneria industriale presso la Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna di Pisa, ateneo di cui è stata rettore per due mandati, ha affermato: «Le scuole paritarie coprono una parte degli studenti italiani e offrono un servizio pubblico. Se togliessimo questi soldi metteremmo in grave difficoltà queste scuole e molti bambini non avrebbero accesso alla scuola. Sarebbe un disastro, tra l’altro i 500 milioni circa di finanziamento alle scuole paritarie sono una parte dei 40 miliardi di spesa per la scuola pubblica. Sono una piccola parte, che però copre laddove il sistema delle scuole statali non riesce ad arrivare. Soprattutto sulla scuola dell’infanzia sulla quale siamo deboli e sulla quale dovremmo tornare ad investire». Per questo «il dibattito sul referendum di domenica 26 maggio di Bologna sembra privilegiare soprattutto le esigenze politiche e i diversi posizionamenti ideologici, piuttosto che gli interessi dei bambini».
Virginio Merola, sindaco di Bologna (Pd) ha inviato una lettera a tutte le famiglie bolognesi in cui ha scritto: «Diamo un milione di euro alle scuole paritarie private perché lo riteniamo giusto. È questo modello che permette di avere qualità educativa diffusa e di non lasciare a casa i bambini quando i tagli del governo diventano insostenibili. Va detto senza ambiguità: è questa per noi la scuola pubblica, non un’altra che non c’è. È bene farla finita con un imbroglio ideologico: questo non è un referendum per dire se sia meglio la scuola privata o la scuola pubblica». In una intervista ha detto: «Il sistema pubblico integrato della scuola, che vede insieme Comune, Stato e scuole paritarie, è attivo da 18 anni e dal 2000 è stato riconosciuto da una legge nazionale. Bisognerebbe capire che le scuole materne paritarie sono dentro il sistema pubblico, se è per questo noi diamo soldi anche alle materne statali visto che lo Stato fa molto meno di quello che dovrebbe fare. Ma il punto è un altro: noi non eroghiamo fondi alle scuole paritarie solo perché siamo costretti dalla difficile situazione economica, lo facciamo perché è giusto farlo. Chi vuole abolire i fondi alle scuole private è un estremista conservatore». Purtroppo lo stesso quesito, ha spiegato ancora, «fa confusione perché crea la falsa informazione che esisterebbero delle scuole private alle quali vengono dati i soldi di tutti. Non è così. Stiamo parlando di scuole paritarie private, esattamente come sono paritarie le scuole comunali. Entrambe riconosciute da una legge del 2000, la n. 62, voluta da Luigi Berlinguer. Invece di chiedere tutti insieme che lo Stato faccia la sua parte, aumentando le sezioni di scuola dell’infanzia statale o riconoscendo maggiori fondi al Comune di Bologna, si fa una lotta tra poveri per togliere i fondi alle scuole paritarie private. Se, grazie alla convenzione con le paritarie private, noi assicuriamo al costo di 1 milione un sostegno a più di 1.700 bambini, a parità di spesa riusciremmo al massimo ad aprire quattro sezioni di scuola dell’infanzia comunale, dando risposta ad appena 150 bambini. Inoltre c’è chi non vuole convincersi che in questo paese una legge è costituzionale fino a quando la Consulta non ne dichiara l’incostituzionalità; e per la legge 62 ciò non è mai avvenuto. Al tempo stesso si pretende che attraverso un referendum consultivo si possa decidere della costituzionalità di una legge. È un atteggiamento aberrante e antidemocratico. Ci si ostina a far confusione sul concetto di scuola pubblica, che nella nostra città − da anni − non è fatta solo da dipendenti del comune o da dipendenti dello Stato. Se un Comune finanzia e sostiene attività che sono di servizio pubblico, queste sono a tutti gli effetti pubbliche, indipendentemente dall’essere svolte da un dipendente comunale, dal dipendente di una cooperativa o di un’associazione no profit».
Walter Vitali, ex sindaco di Bologna dal 1993 al 1999 del Partito Democratico, ha spiegato: «I bolognesi dovranno rispondere a una domanda decisamente faziosa. Questo non è un tema di destra o di sinistra, questa è l’occasione per confermare la scelta giusta del sistema integrato, che va difeso e rilanciato. Tutti noi difendiamo e abbiamo a cuore il sistema pubblico. Un pubblico che, da ormai cinquant’anni, si è liberato di quella visione statalista che, ai tempi della Guerra Fredda, ha fatto molti danni, secondo la quale può essere definito pubblico solo ciò che è statale e nient’altro». In un’altra occasione ha rilevato che «l’offensiva dei referendiani indebolirebbe tutta la scuola pubblica perché senza il milione di euro del Comune molte paritarie sarebbero costrette a chiudere e senza di loro le liste d’attesa crescerebbero». Oltretutto ha ricordato che chi chiama in causa l’articolo 33 della Costituzione che «tutti i ricorsi fatti alla Consulta contro il finanziamento alle paritarie sono stati bocciati».
Stefano Ceccanti, costituzionalista e professore di Diritto pubblico comparato nell’Università La Sapienza di Roma, ha spiegato: «L’argomento risolutivo resta comunque quello della distinzione tra pubblico e statale. Infatti i sostenitori dell’ipotesi A non si occupano di questo criterio, obiettando a priori, se capisco bene, che una soluzione sensata se fosse incostituzionale sarebbe comunque inaccettabile. Il punto è che non è affatto incostituzionale. Fuori da Bologna il referendum è ormai vissuto come un conflitto sulla possibilità di distinguere tra pubblico e statale. Il vero problema è che la lettura dei principi è filtrata da una mentalità statalista secondo la quale i beni comuni possono essere prodotti solo dalla gestione pubblica diretta. È uno schema che non corrisponde a quello della nostra Costituzione».
Giuliano Cazzola, docente di economia presso l’Università di Bologna e politico del PDL, ha spiegato: «la riforma Berlinguer nel 2000 l’ha confermato: in Italia la scuola pubblica è sia quella statale sia quella gestita da privati e paritaria. Pubblico, infatti, non vuol dire necessariamente statale, come, invece, sostiene il comitato promotore del referendum. Perché dare soldi pubblici a scuole private? Perché fanno risparmiare i cittadini! Con un solo milione di euro e poco più dati grazie alle convenzioni alle scuole dell’infanzia paritarie di Bologna, infatti, il Comune permette ad oltre 1.736 bambini di frequentarle, che sono il 21 per cento dei bambini bolognesi. Se quel milione fosse dato alla scuola statale, non si riuscirebbero a garantire lo stesso numero di posti a parità di spesa e molti bambini dovrebbero restare a casa». In un’altra occasione ha commentato: «Mi sembra evidente che quello che sta succedendo a Bologna non è altro che la prova generale di quello che potrebbe accadere a livello nazionale. Il fatto che persone quali Margherita Hack o Andrea Camilleri, che nulla c’entrano con Bologna, abbiano sottoscritto il manifesto del comitato a favore dell’abrogazione dei fondi ne è la prova più evidente. Ci troviamo di fronte all’ennesimo contenzioso tra quelli che si definiscono laici e i cattolici. Una partita vecchia giocata sulla pelle dei bambini».
Sergio Belardinelli, docente di Sociologia politica nell’Università di Bologna, ha scritto: «Il Comitato articolo 33 si sta rivelando un singolare concentrato di tutta una serie di pregiudizi che in questi anni siamo venuti alimentando irresponsabilmente nel nostro paese, primo fra tutti quello secondo cui pluralismo e sussidiarietà sarebbero la semplice copertura ideologica di inconfessabili interessi clericali e liberisti. Stefano Rodotà lo dice espressamente: “è necessario riprendere il filo, spezzato in questi anni, della politica costituzionale e della legalità che essa esprime”. Forse che la sussidiarietà non sia un principio costituzionale? Forse che le paritarie dell’infanzia non rappresentino un indispensabile servizio per i bolognesi, oltre che un notevole risparmio per le casse comunali? Siamo di fronte insomma a un mix di laicismo anticlericale, costituzionalismo giacobino, moralismo e demagogia che sarebbe semplicemente ridicolo, se non fosse che proprio questo mix sta diventando una carta politica vincente nel nostro paese».
Romano Prodi, ex presidente del Consiglio, fondatore del Partito Democratico ed ex docente di Economia all’Università di Bologna, ha scritto: «Se, come spero, riuscirò a tornare in tempo da Addis Abeba, domenica prossima voterò sui quesiti riguardanti le scuole dell’infanzia e voterò l’opzione B. Il mio voto è motivato da una semplice ragione di buon senso: perché bocciare un accordo che ha funzionato bene per tantissimi anni e che, tutto sommato, ha permesso , con un modesto impiego di mezzi, di ampliare almeno un po’ il numero dei bambini ammessi alla scuola dell’infanzia e ha impedito dannose contrapposizioni? Ritengo che sia un accordo di interesse generale».
Salvatore Sechi, docente di Storia contemporanea nell’Università di Ferrara, ha fatto notare che prima della decisione di finanziare parzialmente le scuole paritarie «le scuole statali erano sovvenzionate interamente con le risorse pubbliche (cioè di tutti i cittadini), mentre quelle private, per lo più cattoliche, si alimentavano dei contributi delle famiglie e dei cittadini singoli. Gli stessi ai quali venivano prelevate quote di reddito per finanziare gli istituti statali. Pagavano, dunque, due volte un servizio di cui fruivano parzialmente. Il finanziamento alle scuole paritarie è legittimato dalle legge 62/2000, che riconosce loro un ruolo preciso, cioè una funzione pubblica. Un ruolo che non può essere disconosciuto se non a prezzo di farsi carico di una discriminazione. Ne è derivato un sistema pluralistico che non ha più al proprio centro lo Stato-impiccione tanto caro ai vecchi e nuovi giacobini che hanno prevalso sul liberalismo di origine risorgimentale». In ogni caso a Bologna, «il finanziamento pubblico di cui si chiede l’abolizione sarebbe assolutamente insufficiente a fronteggiare i bisogni reali della popolazione», anche per questo «sarebbe realmente grave se alla fine il monoteismo laicista avesse la meglio».
Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, è intervenuto più volte sul tema: «Il pensiero dei promotori del referendum di Bologna è viziato da un fortissimo pregiudizio ideologico che confonde la laicità con la discriminazione, per cui dovrebbe essere prerogativa esclusiva dello Stato fornire il servizio educativo scolastico, mentre è prerogativa dei genitori scegliere a chi delegare l’istruzione dei figli. La nostra scuola è la scuola pubblica. Quale che sia il soggetto che eroghi il servizio, lo Stato, un comune, un privato profit o non profit: il servizio è pubblico. Così, del resto, vuole una norma, oltretutto, introdotta in Costituzione da una maggioranza di centrosinistra. La contrapposizione tra scuola pubblica e privata è antica e, ormai, superata». In un editoriale critica Stefano Rodotà: «Nella lettera pubblicata ieri dal Corriere, per esempio, Rodotà non usa mai una volta la parola bambini. Preferisce concentrarsi sui principi, sui valori, sui diritti. Interpreta poi con intransigenza una via esclusiva, in cui solo lo Stato rappresenta il “pubblico” e tutto il resto deve restare fuori dal suo perimetro, più che mai se ha a che fare con la Chiesa. I referendari, infatti, non chiedono solo più fondi alla scuola comunale: chiedono che siano tolti a quella non comunale». In un secondo editoriale ha scritto: «La battaglia sembra essere di principio: non un soldo dello Stato a ciò che non è gestito dallo Stato. Ma in questo modo si rischia di negare il diritto alla libertà educativa delle famiglie, anch’esso riconosciuto nella Costituzione. C’è insomma in gioco una questione di libertà molto delicata, visto che si parla di educazione, e che Aldo Moro difese alla Costituente. E infatti la legge, una legge varata dal centrosinistra e che porta il nome di Luigi Berlinguer, stabilisce dal 2000 che tutto il sistema nazionale di istruzione, che sia gestito dallo Stato, dai Comuni o dai privati, è “pubblico”, perché svolge un servizio pubblico e si assoggetta a norme fissate dal potere pubblico, a partire dall’obbligo di essere aperto a tutti. Lo strano connubio tra statalismo e retorica dei diritti, tra post-comunisti e post-giacobini, che ha già terremotato il Pd in Parlamento, tenta ora di conquistarne il popolo nella città simbolo del riformismo».
Luigi Berlinguer, ex ministro dell’Istruzione e padre della riforma sulla scuola paritaria (legge 62/2000), ha scritto: «il referendum di Bologna pone l’accento lontano dalla questione sociale della scuola, confondendo il concetto di statuale con quello di pubblico, con la conseguente rinuncia a sollecitare e a battersi per estendere al massimo il servizio e per qualificarlo sempre più. Gli articoli 3, 5, 33, 34 e 117 costituiscono la cornice costituzionale della legge 62/2000, che è appunto legge fortemente laica di attuazione costituzionale. Il sistema integrato favorisce l’uguaglianza sostanziale e la partecipazione».
32 sindaci di altrettanti Comuni della provincia di Bologna hanno sottoscritto un appello in cui hanno affermato che «l’eliminazione dei finanziamenti alle scuole paritarie private non porterebbe a un aumento dell’offerta pubblica, bensì a una diminuzione drastica dell’offerta formativa complessiva e della sua qualità. Le convenzioni fra Enti Locali e scuole paritarie hanno consentito, nella nostra regione, di generalizzare l’offerta e garantire omogeneità nell’ambito del sistema. Per questo, i sottoscrittori del presente appello, sindaci di una regione nella quale la presenza del sistema paritario garantisce una copertura del 33% dei posti di scuola dell’infanzia, chiedono che sia tutelato nel modo più estensivo il diritto alla scuola delle bambine e dei bambini, preservando un’esperienza di alto valore sociale e civile, che garantisce qualità all’intero sistema scolastico».
Beatrice Draghetti, presidente della provincia di Bologna (Pd) ha scritto in una nota: «Come cittadina bolognese il 26 maggio prossimo andrò a votare al referendum e voterò B». Il referendum voluto dal comitato Articolo 33 è «assolutamente mal formulato e fuorviante», «ideologico» e affetto da «banalizzazione e qualunquismo», e ignora completamente la legge 62/2000, alla quale era necessario fare riferimento «non solo perché esiste, ma per le ragioni di bene comune e di profilo costituzionale che l’hanno ispirata, sostenuta, consentendo un salto di qualità significativo nelle opportunità di istruzione a disposizione dei cittadini».
Francesca Puglisi, senatrice e responsabile nazionale per la scuola del Partito democratico, ha affermato: «Tagliando i fondi alle paritarie non si risolverebbe nulla, anzi sarebbe un autogol perché lo si aggraverebbe. Il nostro problema è garantire un posto all`asilo a tutti i bambini e non lo si risolve certamente con battaglie ideologiche. Se a Bologna il Comune copre la maggioranza dell`offerta formativa, ci sono regioni, come il Veneto e la Lombardia, dove il 60% dei posti è assicurato dalle paritarie. Per questo dico che è velleitario pensare di statalizzare tutto e lo è non soltanto per ragioni economiche ma anche di qualità della scuola. Occorre puntare al governo pubblico di un sistema integrato pubblico-privato, secondo il principio della sussidiarietà. Questo modello sta dando eccellenti risultati di qualità». Rispetto alla militanza di Stefano Rodotà e altri esponenti della sinistra ha spiegato: «Esiste una sinistra che si accontenta di accarezzare le proprie ideologie e un`altra, rappresentata dal Partito democratico, che invece ha vocazione maggioritaria e cultura di governo e che crede che il primo compito della politica sia risolvere i problemi della propria comunità. Sono convinta che l`unica strada per continuare a garantire l`eccellenza del sistema bolognese delle scuole dell`infanzia, sia quella della collaborazione tra pubblico e privato. La sola capace di promuovere quella funzione pubblica del sistema che la legge garantisce».
Giuseppe Fioroni, deputato PD ed ex ministro della Pubblica Istruzione, ha sottolineato: «Non mi interessa il “che bello se tutte le scuole italiane fossero statali”. Credo sia più importante garantire a tutti l’accesso all’istruzione, e soprattutto alle materne. Con questo referendum si rischia di far perdere a molti bambini il diritto alla scuola materna. Oppure di trasformarlo in un lusso per pochi».
Francesco D’Agostino, professore di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, ha scritto: «La richiesta dei referendari di abrogare il finanziamento alle scuole materne “private” non nasce dal fatto che esse siano discriminatorie (nessuno si è sognato o può sognarsi di dire una cosa del genere), ma solo dal fatto che non sono di proprietà statale o comunale. E qui il nodo ideologico della questione emerge nettamente: i referendari ritengono evidentemente che solo una proprietà statale o comunale possa garantire servizi ottimali per tutti. Tesi ardita, ma che qui non voglio discutere nel merito. È sufficiente ribadire che l’opposta tesi (quella per la quale un servizio pubblico affidato a privati possa essere ben più vantaggioso) non è vergognosa e non merita di essere denigrata come una tesi «contabile». È piuttosto una tesi che ci aiuta a capire cosa davvero sia la laicità autentica: il discutere cioè a partire dalle cose stesse e non da valutazioni pregiudiziali, ancorché nobili e suggestive (almeno per chi le propone!). Laicità è «credere che le cose esistano», diceva l’indimenticabile Sofia Vanni Rovighi, è ragionare a partire dal “basso” dell’esperienza (cioè in questo caso dalla concretezza della situazione bolognese) e non dall’”alto” dei concetti (anche di quelli della tradizione latinocristiana e dalla sua pretesa diffidenza verso l’analisi economica della «massima convenienza»). Introdurre nel dibattito su un sistema di istruzione pubblico integrato e, specificamente, sul ruolo della scuola materna convenzionata e sui finanziamenti a essa destinati un riferimento a tali concetti assoluti significa restare chiusi in quel recinto ideologico che la modernità ha costruito per difendere se stessa e i suoi dogmi (non meno vincolanti dei dogmi cristiani e molto meno storicamente filtrati di questi!). Da questo recinto bisogna assolutamente fuoriuscire: per chi è chiamato a farlo, anche con un saggio voto referendario domenica prossima».
Vittorio Feltri, direttore del quotidiano di destra Il Giornale, ha posto una domanda provocatoria a Stefano Rodotà: «se io scelgo di iscrivere i miei figli a un istituto privato, e saldo la retta annuale fino all’ultimo centesimo, di fatto togliendomi dal carrozzone pubblico (statale o comunale), perché oltre a quell’istituto privato devo pagare anche la quota d’imposta relativa al funzionamento del carrozzone su cui ho rifiutato di salire? Se la scelta della scuola è facoltativa, come previsto dalla Costituzione, e io opto per quella – poniamo – religiosa, giusto che mi carichi personalmente della retta. Fin qui ci siamo. Ma perché dovrei pagare anche le tasse per contribuire a tenere in piedi la scuola pubblica di cui non usufruisco?»
Benedetto Zacchiroli, consigliere comunale del Pd e attivista omosessuale, ha ricordato che «Se togliamo i soldi alle scuole paritarie di Bologna dobbiamo toglierli anche al Cassero», cioè lo storico circolo omosessuale della città che riceve un contributo dal Comune per le sue attività. Per questo voterà anche lui “B” al referendum per le paritarie: «Diamo 36 milioni alle scuole comunali e vogliamo toglierne 1 alle paritarie?». Per questa presa di posizione ha ricevuto l’attacco dell’Arcigay ma lui ha ribadito: «Il Comune, tramite sgravi fiscali su bollette e altro, dà dei soldi al Cassero perché ritiene che il servizio offerto sia pubblico: informazioni sull’Aids, counseling a omosessuali, lesbiche e transessuali. Se questo servizio non fosse offerto dal Cassero, il Comune non sarebbe in grado di fornirlo. Ma il principio è lo stesso. La sussidiarietà è una. Siccome le scuole paritarie fanno un servizio pubblico il Comune le sostiene. Tra l’altro, va sempre ricordato che stiamo parlando dello 0,8 per cento su un totale di 36 milioni di euro che il Comune destina all’istruzione. In ogni caso: se non ci fossero le paritarie sarebbe un problema, perché con gli stessi soldi il Comune non potrebbe provvedere a quei bambini».
La redazione