Amiche e amici ospiti, compagni dei partiti esteri, del KKE esempio di mobilitazione; del PdCI attraverso cui saluto il compagno Oliviero Diliberto che ho recentemente incontrato al vostro Congresso di Rimini; compagni delle rappresentanze diplomatiche, dei partiti della sinistra ticinese e cari compagni dalla Mesolcina; compagna Tamara Magrini, rappresentante dell’Autorità comunale di Locarno; compagno Cyrille Baumann del Partito del Lavoro di Berna e della Gioventù Comunista nazionale: grazie a tutti voi per onorarci della vostra presenza.
Carissime compagne, carissimi compagni, vorrei iniziare questa mia relazione introduttiva in modo un po’ anomalo, perché c’è un compagno, si chiama Oscar ed è di Giubiasco, che oggi non ha potuto raggiungerci a questo nostro 21° Congresso: mi ha scritto un sms con uno smile triste in cui mi diceva “i miei genitori dicono che sono troppo piccolo per queste cose”, e allora gli ho promesso che l’avrei salutato da qui, da questo podio. Oscar con i suoi 13 anni è il più giovane compagno che si è avvicinato al nostro movimento giovanile. A quell’età tante cose ancora possono cambiare, certo, ma l’entusiasmo per gli ideali più profondi di uguaglianza e giustizia che appartengono alla nostra tradizione di lotta, sono il motore che ci fanno andare avanti e che in questo periodo di incertezza e di crisi portano tanti giovani a interrogarsi sul futuro di una società profondamente iniqua che sta scelleratamente dimostrando di non aver imparato nulla dalla storia.
Voglio dedicare a Oscar una citazione che una decina di anni fa, quando ho iniziato a fare politica attiva, mi aveva entusiasmato e mi aveva definitivamente posto risolutamente a sinistra. E’ una frase di un grande rivoluzionario, un grande marxista-leninista, che in troppi banalizzano e che in tanti strumentalizzano, ma che noi come comunisti sappiamo riconoscere come un esempio dal punto di vista storico e politico. Il comandante Ernesto Che Guevara ci ha insegnato, infatti, che: “C’è qualcosa di più importante della classe sociale a cui appartiene un individuo: la gioventù, la freschezza, l’ideale, la cultura che nel momento in cui si esce dall’adolescenza si mette al servizio degli ideali più puri”. E questa frase la voglio dedicare non solo a Oscar ma ai tanti giovani e giovanissimi che hanno ripreso in mano la bandiera rossa che molti davano per sepolta del Partito ticinese del Lavoro – quella che vedete appesa lì dietro – e che questo Congresso, a partire dal titolo, vuole onorare perché è in gran parte grazie ai giovani se il progetto politico che rappresentiamo è tornato a marcare il territorio in Ticino con innovazione e tenacia, come abbiamo potuto sentire dalle parole che mi hanno preceduto del compagno Aris.
Come scriveva il compagno Filipe Madureira, un nostro compagno del Mendrisiotto, qualche mese fa: nei partiti comunisti di un tempo, anche nella sezione del più piccolo dei comuni, le riunioni iniziavano partendo dalla relazione sul quadro internazionale, per poi man mano calarsi ad analizzare le questioni nazionali, regionali, poi comunali e di quartiere o di posto di lavoro. Questo permetteva di inserire ogni singolo aspetto, anche il più piccolo, della vita politica nel giusto contesto globale, fatto di intrecci e relazioni non sempre evidenti. Forse una volta si esagerava, ma a me pare che oggi, invece, abbia vinto un modo di far politica spiccio, spesso superficiale oltre che volgare. Questo Congresso vuole riuscire a impostare il lavoro dei comunisti ticinesi nei prossimi due anni ricercando un equilibrio fra la necessità di avere le idee in chiaro sugli aspetti internazionali e la capacità di sapersi connettere con il tessuto sociale e popolare nel quale ci troviamo ad operare nel nostro Cantone e nei nostri Comuni.
E voglio iniziare proprio dal contesto globale nel quale i comunisti si trovano ad operare. Anche il documento politico di questo congresso parte da un analisi ad ampio respiro per contestualizzare anche l’azione di un partito comunista del XXI secolo nel nostro Paese.
Il capitalismo non si è fermato, ha continuato a mutare e ad affinare i suoi sistemi di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Con la globalizzazione ha saputo scomporre la classe operaia, ha saputo riattualizzare il dominio imperialista del centro sulle periferie e oggi che la crisi economica sistemica sta imperversando sta riproponendo pericolosissimi scenari militari
Ma non si tratta semplicemente di parlare di capitalismo, dobbiamo parlare chiaramente di imperialismo e di lotta contro l’imperialismo, di solidarietà internazionalista a favore dell’unità e della sovranità nazionale dei paesi periferici, parole vecchie, parole drammaticamente vere e attuali. E riscorprire questa analisi, rigorosamente marxista, diventa strategico: da quando il blocco sovietico è venuto meno, le guerre sono aumentate e i diritti sociali in occidente sono crollati, le utopie gorbacioviane seguite anche dal nostro Partito, sulle case comuni europee hanno dimostrato tutta la loro inconsistenza e il loro spirito reazionario, anche se in molti a sinistra, quella sinistra buonista tipicamente occidentale ed eurocentrica, continuano a crederci.
Per noi comunisti la lotta anti-imperialista non deve mai venir meno, ma si tratta ora di rimetterla ai primi posti della nostra azione perché non ci sarà mai socialismo, senza prima una piena indipendenza e una chiara posizione contro le forme vecchie e nuove, militari o finanziarie, di colonialismo.
La recente distruzione manu militari della Giamaria Araba di Libia Popolare e Socialista sorta dalla rivoluzione del 1969 e il genocidio perpetrato dalla NATO contro il popolo libico porterà alla trasformazione della Libia in un stato fantoccio del colonialismo europeo, uno stato in cui viene riabilitato nientemeno che Mussolini, come ha ammesso il cosiddetto premier del dopo Gheddafi e questo alla faccia della democrazia esportata e alla faccia di certi compagni che manifestavano assieme a esponenti dell’integralismo islamico con le bandiere tricolori della Libia monarchica. Passi indietro giganteschi nell’emancipazione dei popoli africani saranno presto visibili a causa anche dell’incapacità della sinistra occidentale di costruire forti mobilitazioni contro la guerra e con i governi popolari che in posizioni difficilissime tentano di ridare dignità a popoli in perenne stato di sfruttamento. E la Svizzera deve prendersi le sue responsabilità, al di là delle belle parole dei ministri degli esteri socialdemocratici: chi è che ha autorizzato di calpestare il cosiddetto patrio suolo di questa nostra Confederazione? Il Consiglio federale, che schiavo d’altrui si rende come ricorda un vecchio canto anarchico, ha permesso a truppe di eserciti stranieri impegnate in azioni di guerra offensiva di attraversare il nostro Paese, una Svizzera che si vende ancora come neutrale, ma che non lo è più. E come potrebbe se il nostro esercito è diretamente legato con un esercito aggressore e fascista come quello del regime sionista e razzista di Israele?
E che dire di quello che sta accadendo nella Repubblica Araba di Siria, con la complicità degli ambasciatori di Francia e Stati Uniti, con la complicità di etniee manipolate per spaccare l’unità nazionale, è un altro tassello della strategia guerrafondaia dell’Occidente in declino che per risollevarsi può solo sperare in una nuova carneficina, facendo ammazzare fra loro la povera gente e permettendo al capitalismo di durare ancora un po’ indossando una tuta mimetica addolcita da un vergognoso Premio Nobel per la Pace a colui che sta eguagliando Bush nel compiere atrocità varie: quel presidente Obama a cui noi non abbiamo mai dato credito, al di là del colore della sua pelle che ha fatto sognare di mondi impossibili la solita sinistra buonista occidentale che ha perso per strada l’analisi di classe che dovrebbe invece guidarla.
Chissa se questa sinistra riucirà a capire il ruolo importante che potrà assumere la Repubblica Popolare Cinese, quell’immenso paese che rimane socialista e che è guidato da un forte Partito Comunista, nel determinare un freno all’imperialismo aggressivo dell’Occidente e nel costruire un mondo multipolare.
I conflitti dettati dall’imperialismo e le contese interimperialiste potranno quindi solo crescere. La linea politica del nostro Partito di promozione non solo di una cultura di pace ma anche di difesa della neutralità svizzera rispetto all’Unione Europea di cui siamo fieri oppositori e ad alleanze militari come la NATO, si dovrà pertanto consolidare ulteriormente. E giusta strategicamente è la linea del nostro Partito a favore dell’obiezione al servizio militare e di sostegno a quel 40% (perché non sono di più!) di giovani svizzeri coscritti (e ormai sono quasi solo figli di immigrati e di estrazione sociale bassa) affinché non si rendano in nessun modo complici del militarismo elvetico alleato al razzismo sionista e organicamente legato – alla faccia della nostra presunta neutralità – alla NATO e alle potenze colonialiste. Basti pensare che abbiamo militari ovunque anche se nessuno lo dice e anche se non risultano ufficiamente nei documento dell’ONU. Abbiamo consiglieri militari al soldo degli Stati Uniti in vari aree calde e nelle nostre scuole reclute, a cui i comunisti rifiutano di partecipare, si insegna che l’esercito neutrale non serve a difendere l’indipendenza nazionale, ma serve anche a sostenere progetti di pace, che noi sappiamo essere dal primo all’ultimo missioni di guerra camuffate, atte a ridefinire il dominio occidentale sui paesi in via di sviluppo per continuarne il saccheggio di risorse naturali e strategiche.
Nei centri imperialistici, come è la Svizzera, riscontriamo peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati che subiscono non solo riforme volte alla precarizzazione e alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, ma sono confrontati anche con i tagli nelle assicurazioni sociali e i perlomeno latenti processi di privatizzazione. Nonostante ciò, se paragonate alle condizioni in cui vivono i lavoratori della periferia, il livello di benessere risulta essere superiore. Storicamente infatti i profitti generati grazie all’imperialismo hanno “consentito” alla borghesia una minima ridistribuzione della ricchezza con la finalità politica di dividere i lavoratori: una parte della classe operaia può così, infatti, disporre delle briciole ed emanciparsi dalla miseria, diventando una “aristocrazia operaia” (come la definiva Lenin), rappresentata dai partiti riformisti (socialdemocratici). Venendo meno il periodo del welfare state keynesiano (finanziabile anche grazie allo sfruttamento delle periferie!), i salariati nei paesi avanzati risentono della perdita di ricchezza sia finanziaria che sociale: i processi di “proletarizzazione” in atto nei paesi occidentali, con la precarizzazione del lavoro e la competizione con i lavoratori immigrati sono infatti sotto l’occhio di tutti. In questa condizione di disorientamento – perché per la prima volta le prospettive per i giovani sono peggiori di quelle delle generazioni più anziane – vi è comunque da tener presente che, nel contesto globale, la percezione è ancora quella di una situazione considerata privilegiata prodotta dallo status di paese imperialista. I lavoratori si concepiscono in questo contesto come individui – e non come classe! – che devono difendere il proprio livello di vita, a tutti i costi. Si crea quindi una frattura grave fra i lavoratori del centro e quelli della periferia, che può portare in caso di forte tensione anche a sostenere guerre di stampo neo-coloniale o a irrigidimenti di stampo fascista della società, di cui il fenomeno berlusconiano in Italia o quello leghista da noi sono le caratteristiche.
Il contesto nel quale ci troviamo è dunque uno dei peggiori dal punto di vista sociale ed economico degli ultimi anni, l’esigenza quindi di superare il capitalismo andrebbe posta come prioritaria nell’agenda politica della sinistra, eppure ciò non è, se non escludendo alcuni vuoti slogan nei vari programmi. Il deterioramento delle condizioni di vita, l’aumento del precariato, l’insicurezza sociale, gravi fenomeni di sfruttamento, di cottimo, di caporalto come più tardi avremo modo di discuterne, sono riconosciuti da ampie fette della popolazione e tuttavia la sinistra non è in grado di diventare il punto di riferimento per organizzare una resistanza popolare a tali misure. Noi come comunisti cerchiamo di fare il possibile nell’intento di trovare un’unità d’azione con tutte le forze interessate a contrastare questo stato di cose. Questa nostra linea, risolutamente non settaria e di umiltà, perché riconosciamo che le nostre forze attuali sono ancora deboli e non siamo autosufficienti per determinare cambiamenti progressisti, non deve però significa che noi siamo la manodopera di altri, non deve però significare che il resto della sinistra possa pensare che noi siamo subalterni a loro, non siamo il pungolo a sinistra della socialdemocrazia, ma abbiamo un nostro chiaro progetto politico, indipendente ma anche responsabile e unitario. Ci aspettiamo quindi rispetto e capacità di trovare punti di convergenza da parte degli altri soggetti politici e sindacali. A queste condizoni i comunisti saranno i partner più affidabili e leali di ogni fronte unito, in caso contrario non saremo gregari a nessuno e continueremo per la nostra strada, fieri del nostro nome, della nostra tradizone marxista e leninista, e consolidando il nostro radicamente territoriale. Una strada di fierezza e di indipendenza seppur aperta al dialogo iniziata al Congresso di Osogna del 2006, ribadita nel 2007 proprio qui a Locarno e nel 2009 a Bellinzona.
Ci dobbiamo ora chiedere quali saranno le contraddizioni che caratterizzeranno la fase storica e quali dovranno essere le forme organizzative che i comunisti dovranno adottare. Ve ne sono moltissime, io inizio ad elencarne tre:
Il primo elemento da considerare è la crisi economica strutturale e che mette in discussione le condizioni di vita dei lavoratori, dei giovani, dei pensionati. Lungi da noi ogni ipotesi spontaneista nel passaggio della “classe in sé” alla “classe per sé”: la scomposizione di classe è troppo avanzata perché si possa cedere a visioni operaiste di tipo quasi messianico. Tuttavia si potranno aprire degli spiragli di lotta sociale in cui toccherà a noi saper inserire elementi di critica anti-capitalistica. Le recenti mobilitazioni nel settore edile in Ticino sono sintomatiche e lo saranno anche le future agitazioni che potrebbero preannunciarsi alle Officine di Bellinzona, alle cui maestranze guidate dal compagno Gianni Frizzo va tutta la nostra stima e solidarietà. In questo senso dovremo sviluppare finalmente una strategia sindacale che per troppi anni è mancata totalmente. Ed è un compito non facile per un partito molto ringiovanito e la cui militanza è quasi esclusivamente fornita da studenti. Ma ci impegneremo e riusciremo a superare anche questa lacuna a piccoli passi e con l’umilità ma anche con la determinazione per la quale siamo noti.
Il secondo elemento di contraddizione che appare evidente è la tendenza della borghesia a implementare politiche “securitarie”, autoritarie, sempre più neofasciste e potenzialmente guerrafondaie. La linea del Partito Comunista di aperto sostegno ai giovani svizzeri affinché non svolgano servizio militare e si distanzino dall’esercito elvetico – che non è (più) né neutrale né di difesa ed è una banale leva borghese e non ha nulla a che vedere con la mitologia della milizia – complice di tante aberrazioni appare quindi lungimirante nell’ottica di non essere partecipi di tale tendenza e di sviluppare anzi altre capacità per i nostri militanti, come la conoscenza – attraverso il servizio civile – delle realtà quotidiane in vari ambiti professionali e sociali della classe lavoratrice. Sul fronte interno sappiamo che le formalità democratiche del sistema politico potrebbero diventare un ostacolo per il processo di accumulazione capitalistica in questa fase di crisi: esse quindi potrebbero essere progressivamente limitate quando non liquidate con scuse quali la “lentezza” della democrazia, l’indisciplina giovanile (che sarà affrontata con mezzi di controllo sociale), la microcriminalità (a cui si contrapporrà uno stato di polizia), ecc. I comunisti sono chiamati alla vigilanza democratica e alla difesa dei diritti popolari acquisiti.
La terza contraddizione che notiamo è quella ambientale che permette di mettere in discussione radicalmente il modello di crescita ecologicamente (e socialmente) non sostenibile tipico del modo di produzione capitalista basato dall’appropriazione del plusvalore all’interno di un contesto di riproduzione allargata atta a bypassare la caduta tendenziale del saggio di profitto. Movimenti popolari, quindi, di resistenza alle cosiddette grandi opere (l’inceneritore dei rifiutati di Giubiasco-Baragge nel 2005; il gasdotto Metanord nel 2006; la variante autostradale sul piano di Magadino nel 2007; le urbanizzazioni selvagge; ecc.) che poi spesso si sviluppano in una critica all’intreccio “mafioso” fra affari e politica, mettono in discussione proprio la regola latente dell’accumulazione allargata del plusvalore e quindi dispongono di un potenziale oggettivamente anti-capitalista che come marxisti dobbiamo saper individuare e rendere esplicito. In quest’ottica il Partito deve continuare la sua “svolta eco-socialista” senza dogmatismi di sorta, ma con una tattica flessibile, andando incontro alle sensibilità di sempre più compagni.
Ma parliamo anche dei difetti del nostro Partito. Il difetto più grave del nostro Partito mi sembra essere una parte importante di iscritti inattivi, che ad un certo punto cesserà di essere una massa passiva ma diventerà una massa che se ne va, favorendo l’offensiva dell’avversario. Questo diceva un grande dirigente della Resistenza antifascista e successivamente uno dei vertici del Partito Comunista Italiano, il compagno Pietro Secchia. Ebbene, io credo che anche nel nostro Partito – fatte le dovute proporzioni – vi sia questo problema. E invece un partito comunista non può essere un partito di rappresentanza di una determinata classe sociale, esso deve essere il luogo per antonomasia della militanza, della partecipazione attiva e del coinvolgimento. Non vogliamo un partito di funzionari, vogliamo un partito di militanti. Occorre – per citare nuovamente Secchia – saper scoprire le qualità che esistono in ogni individuo, saper collocare ognuno al posto che meglio risponde alle sue attitudini.
Questo Congresso dovrà assolvere almeno parzialmente questo obiettivo eleggendo il nuovo Comitato Cantonale e una prossima Conferenza Cantonale dovrà poi completare quest’opera di rinnovamento attraverso la più che necessaria revisione totale degli statuti.
Va costruito un partito di quadri, ma con vocazione di massa, non una élite staccata dalla popolazione, ma nemmeno un partito trade-unionista. E a costo di scandalizzare qualcuno io dico che il nostro deve essere un partito di governo! Sì, avete sentito bene: un partito di governo! Un partito di governo, non un partito al governo. E’ diverso: non un partito che fa propaganda roboante, non siamo “propagandisti della rivoluzione”. Dobbiamo essere un partito di governo, cioè capace di delineare una proposta per risolvere i problemi che affliggono la società. Altrimenti non siamo credibili. Altrimenti c’è l’attesa messianica del comunismo, ma in realtà non si produce politica. Il Partito deve insomma essere inserito nella storia politica e culturale del Paese. Ricordiamoci infatti che la borghesia italiana impaurita dal biennio rosso preferì barattare la democrazia con il fascismo, in cambio della stabilità economica. E questa è la situazione attuale, perché la borghesia ha paura di questa immensa crisi economica. I tratti autoritari, militaristi e conservatori sono endemici alle nostre società occidentali e l’egemonia culturale della destra basata su individualismo, selezione e meritocrazia è quasi totale. Ecco perché il Partito Comunista deve dimostrare di avere le idee chiare in fatto di proposta politica e di agire concretamente per risolvere i problemi reali della popolazione, qui e oggi. Ecco perché c’è l’esigenza di mostrare che il partito comunista è qualcosa di utile e non di folkloristico.
Grazie a tutti per l’attenzione e buon lavoro.