Magazine Cultura

Religione iMac, iPod, iPad e titoli di nobiltà culturale

Creato il 08 ottobre 2011 da Davide

Dopo alcuni anni di crisi tra il co-fondatore e la creatura che l’aveva rinnegato ed espulso, la Apple, nel 1998 Jobs torna e dà vita all’iMac, e linfa economica alla Apple in affanno. Accolto in modo straordinario l’iMac fu il primo di una serie di prodotti dall’immenso successo. Poco dopo l’iMac usciva una nuova versione che sembrava, almeno a me, soprattutto una bella lampada da tavolo design. Ricordo che proprio in quel periodo un collega analfabeta di computer mi chiese consiglio su cosa comprare al figlio adolescente, se un Mac, che costava un braccio e una gamba e che il figlio voleva perché “era bello”, oppure un PC del disprezzato Bill Gates. Così gli risposi: “Se vuoi un bel soprammobile che fa solo quello che ti permettono di fare da Cupertino, ma che ti fa sentire un figo radical chic perché paghi di più, scegli Mac. Se invece vuoi lavorarci col computer e se hai un’esigenza nuova attacchi un nuovo pezzo fino ad avere più un albero di Natale che un PC, oppure compri un nuovo programma Windows compatibile, allora scegli PC”. Il collega, che era un vecchio comunista, scelse alla fine PC.


Il problema tra Mac e PC in realtà era una nuova versione della vecchia guerra tra sistema Betamax della Sony e sistema VHS della JVC per i videoregistratori. Sony aveva optato per un prodotto elitario, anche migliore per certi versi, ma di cui non aveva ceduto la licenza a nessuno, volendo il 100% del controllo. La JVC, al contrario, aveva dato la licenza a tutti in cambio di una royalty congrua economicamente, così aveva spopolato perché tutti i costruttori di videoregistratori e di apparecchi TV avevano optato per il sistema VHS e Sony aveva preso una batosta storica. La situazione era più o meno la stessa nel 1998: la Apple, come la Sony, voleva il controllo totale ed era quasi sparita dagli scaffali dei videogiochi delle grandi catene di supermercati americani. Lo so perché avevo cercato per tutta Seattle un videogioco per Mac per un amico e l’avevo trovato solo in un negozio specializzato Apple nell’estrema periferia, e Seattle non è Mexican Hat, Utah. La Microsoft, al contrario, come la JVC, aveva optato per vendere la licenza del sistema Windows a tutti quelli che costruivano computer e aveva fatto saltare il banco. Quando dico a tutti, intendo anche il mio rivenditore che fa assemblati su misura dei clienti, adatti alle esigenze individuali. Così Microsoft offriva un prodotto altamente flessibile a un prezzo inferiore, accontentando sia le tasche proletarie che quelle professionali.


Quando Steve Jobs tornò alla Apple, non cambiò affatto la filosofia dell’azienda a proposito del controllo totalizzante, anzi, ma nascose questa filosofia dietro una religione elitaria dell’estetica del prodotto. Ovviamente non poteva ingannare il mondo degli hacker, che odiano il totalitarismo di Cupertino assai più del monopolismo di Redmond (la cittadina a 20 km da Seattle dove ha sede Microsoft). Però poteva far breccia, come ha fatto, presso chi aspirava a titoli di nobiltà culturale, per usare un’espressione di Bourdieu. E proprio ‘La Distinzione’ di Bourdieu (1979, ed. italiana Il Mulino, BO 1983) mi sembra possa offrire un’interessante chiave di lettura del fenomeno dei Maccultisti, i seguaci di Steve Jobs, l’elegante asceta di fronte al quale Gates sembra un letto sfatto.

C’è da dire innanzitutto che siamo in un periodo in cui, con il potenziamento dei musei d’arte moderna e il trionfo della pop art, vi è un accesso allo statuto di opera d’arte di oggetti prima trattati come curiosità da collezione o come documenti storici ed etnografici, oppure oggetti di mobilio ed elettrodomestici. L’accesso allo statuto di opera d’arte di questi oggetti, osserva Bourdieu (p. 26) ha materializzato l’onnipotenza dello sguardo estetico, un’operazione con cui l’artista, con la totale complicità degli intellettuali, ha prodotto un nuovo feticcio. Il consumo materiale o simbolico dell’opera d’arte costituisce una delle manifestazioni supreme dell’agio, sia nel senso di condizione agiata economicamente, che in quello di atteggiamento disinvolto (p. 52), in altre parole l’essere figo. Man mano che aumenta la distanza oggettiva dai bisogni, tipici delle classi popolari, continua Bourdieu, lo stile di vita (borghese) diventa sempre più quello che Weber chiama una ‘stilizzazione della vita’: scelta sistematica che orienta ed organizza le pratiche più diverse, dalla scelta di un’annata di vino o di un formaggio, all’arredamento di una casa di campagna. E quindi di un pezzo di arredamento oggi indispensabile: il computer, oppure dell’abbigliamento/protesi, l’iPod, l’iPhone e l’iPad. L’effetto del modo di acquisizione, precisa Bourdieu (p. 75) non è mai così forte come nelle scelte più ordinarie dell’esistenza quotidiana: il mobilio, l’abbigliamento, la cucina, che sono particolarmente rivelatrici di atteggiamenti profondi e radicati, perché, collocandosi al di fuori del campo di intervento dell’istruzione scolastica, devono venir affrontate, per così dire, dal nudo gusto, al di fuori di qualsiasi prescrizione o proscrizione esplicita, se non quelle imposte da istanze di legittimazione assai poco legittima come i media.

L’atteggiamento estetico (p. 53) è una dimensione di un rapporto di distanza, ma ben assicurato al mondo degli altri. E’ anche un’espressione distintiva di una posizione privilegiata nello spazio sociale, il cui valore distintivo si determina oggettivamente nel rapporto con altre espressioni risultanti da condizioni diverse. Come ogni altra specie di gusto, esso unisce e separa. I gusti, cioè le preferenze espresse, nel nostro caso verso un sistema operativo e un prodotto Mac, rappresentano l’affermazione pratica di una differenza necessaria, e si affermano in forma del tutto negativa, attraverso il rifiuto opposto a gusti diversi (“chi preferisce il PC è un reazionario e uno sfigato”), dato che i gusti sono innanzitutto dei disgusti, osserva Bourdieu, fatti di orrore e intolleranza viscerale, tipo “mi fa vomitare”. E’ facile capire perché i Maccultisti si stringano assieme per disperdere le armate diaboliche degli sfigati del PC, perché abbiano siti come www.cultofmac.com oppure perché Jobs nel presentare i suoi prodotti usava termini da cultismo New Age come ‘magia’ e ‘esperienza’.


Le contrapposizioni apparentemente più formali di questa mitologia sociale, osserva infine Bourdieu (p. 470), sono sempre debitrici della loro efficacia ideologica al fatto di rimandare, in modo più o meno diretto, alle più fondamentali contrapposizioni dell’ordine sociale: quella tra dominati e dominanti, iscritta nella divisione del lavoro, e quella fondata sulla divisione del lavoro di dominio, cioè capitalisti e intellettuali, che all’interno della classe dominante mette in contrapposizione due diversi principi di dominio, due diversi poteri: dominante (capitalista) e dominato (intellettuale al suo servizio), temporale e spirituale, materiale e intellettuale. Così il fine ultimo dei Maccultisti, che gli adepti se ne rendano conto oppure no, è quelli di proporre se stessi come elite dominante, illuminata perché pura esteticamente, o per dirla in termini New Age, i maghi bianchi, gli angeli del Bene, in ultima analisi una versione postmoderna riveduta e corretta del mito aristocratico platonico di Atlantide o dell’Utopia di Moro, passando per i Santi puritani e i guru oriental-californiani.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :