Golfolina – Targa con citazione di Leonardo da Vinci
Percorrendo il crine di quel monte che, staccandosi dall’Appennino a Serravalle, va a perdersi con dolci declivi nelle strette gole della Golfolina, presso Signa, l’alpinista discreto che non aspiri alle pericolose glorie del camoscio, può incontrare i suoi stupendi quadri, dei quali l’amica natura ha fatto tanto ricca e malinconica la poesia dei nostri facili colli toscani.
La cima sulla quale sorge la torre di Sant’Alluccio è certamente la più pittoresca del Monte Albano; e mi rincresce che i nostri alpinisti l’abbiano dimenticata nel loro itinerario, additando invece la prossima vetta di Pietra Marina, bellissima anco quella, ma senza dubbio da posporsi alla mia preferita, quantunque s’innalzi circa cento metri di più sul livello del mare.
Torre di Sant’Alluccio
La prima volta che giunsi lassù quasi mi si abbagliarono gli occhi, e per qualche minuto, incantato dal maraviglioso spettacolo che mi stava dinanzi, non seppi fare altro che guardare attonito in giro, senza distinguere nulla di definito nel largo e verde orizzonte, finché, quetato il primo stupore, potei scorgere vicina a me una bionda fanciullina di circa dodici anni, vestita nel suo povero costume di pecoraia, la quale, venendomi incontro con un mazzolino di mammole, si fermò a due passi da me e, tenendo gli occhi bassi per vergogna, mi disse:
«Le vòle?».
«Cara monelluccia mia, sicuro che le prendo! e ti ringrazio», le dissi accarezzandole una gota. «Le hai còlte tu?»
«Sissignore.»
«O per chi le avevi còlte?»
«Per lei.»
«Per me! O che mi conosci?»
«Nossignore.»
«E allora come mai t’è venuto questo bel pensierino?»
Abbassò gli occhi sorridenti, e gingillandosi con una còcca del grembiule, guardò verso un ciuffo di càrpine poco discosto e rispose:
«Me l’ha detto lui!».
Mi volsi anch’io verso quella parte e vidi la faccia vispa d’un ragazzetto che appariva tra le frasche, il quale, di sotto al suo cappellaccio di lana bianca, mi sorrideva timido e malizioso.
La fanciullina, quando vide scoperto il suo compagno, lo chiamò con queste parole:
«O di che ti vergogni, grullo? vieni fòri!».
Il ragazzetto si accostò a noi adagio adagio, tenendo il cappello in mano e masticando un ramoscello di ginestra.
«O che cosa fate quassù soli soli, monelli che non siete altro, rimpiattati nei ciuffi di càrpine?», dissi loro in tono tra il serio e il burlesco.
Si guardarono in viso e dettero in uno scoppio di risa.
«Ah! ridete anche?»
Un’altra risata più sonora della prima.
«Ora t’insegnerò io a ridere in faccia alle persone per bene, pezzo di sbarazzino!», e così dicendo mi misi a correre dietro al ragazzetto che scappò spaurito, saltando fra le scope come un capriolo e gridando:
«Tanto che non mi pigliate mica!». Né si fermò finché non mi vide cessare di rincorrerlo.
Quando tornai vicino alla bambina, la trovai che piangeva.
«Tu piangi!?», le dissi. «O non vedi, giuccherella, che faccio il chiasso? Ma che credevi davvero che gli volessi far del male? Andiamo, andiamo, via; sta’ zitta e dimmi piuttosto come ti chiami.»
«Fiorè…ella.»
«Su, su, povera Fiorelluccia mia, sii bona, e con questi comprati i brigidini domenica, quando anderai alla messa. Dimmi: o lui come si chiama?»
«Pipetta.»
«Pipetta è il soprannome: io domandavo del nome: com’è il suo nome?»
«O che lo so? Lo chiaman tutti Pipetta.»
E sollevò gli occhi di lacrime e rasserenati.
«Ah! tu ridi? Dunque s’è fatto la pace!»
«Sì.»
«O brava! Ora si che mi piacciono i tuoi belli occhioni lustri! Animo Pipetta!», dissi al ragazzo, «noi s’è fatto la pace; se la vuoi fare anche tu, ritorna qua e ti darò da comprare i brigidini anche a te, se vorrai farmi un piccolo favore.»
L’idea del brigidino l’addomesticò subito, e venne correndo.
«Sai punte fonti qui vicine?»
«Sissignore; ce n’è una lì sotto subito, e com’è bona!»
«Tieni, empi questa barchettina di cuoio e riportamela.»
Pipetta, tutto soddisfatto per la fiducia, a salti, a sbalzelloni andò per l’acqua correndo; e fece in seguito parecchi di quei viaggi e molto allegramente, perché il mastice d’una fiaschetta che tenevo a tracolla, buttato nell’acqua che diventava turchiniccia, piacque tanto ai miei nuovi e piccoli amici che non cessarono di chiedermene e di beverne con ghiottoneria fanciullesca finché non fu finito.
Ci mettemmo insieme a sedere sull’erba e dopo poco ci fu scambio tra noi della più franca e cordiale confidenza. Cantarono stornelli con le loro voci argentine; m’additarono giù davanti Firenze, Prato e Pistoia, distinte come gruppi più folti di pratoline in mezzo ad un’ampia prateria, e dietro alle spalle il mare lontano, domandandomi se fosse vero che era tanto più grande delle padulette del Poggio a Caiano. Mi additarono quindi gli Appennini sui quali Pipetta era nato, e giù in basso le casucce dove ora abitavano, sprofondate nell’ombra d’una stretta forra, presso alle quali un molino lavorava mandando fino a noi il fresco rumore del suo ritrécine.
A Pipetta mi toccò promettere che nel settembre sarei tornato a trovarlo cacciando, e lui mi disse che sapeva tante brigate di starne e che me le avrebbe insegnate. Fiorella mi disse che c’erano tante lepri e tante volpi. Poco dopo, quando si sentì sonare la campana delle ventiquattro a Bacchereto, i miei amici mi lasciarono in gran fretta correndo giù per le balze del monte, ed io non mi volli muovere finché non persi nella lontananza i fischi e le grida da loro mandate per raccogliere le pecore disperse giù per le pendici erbose della selva.
«Sono contenti, poveri ragazzi!», pensai tra me dando un’ultima occhiata al tetto verdastro delle loro casette accucciate fra gli ontani. «Sono felici!» E ripetendomi in mente queste parole, me ne tornai passo passo a casa conversando lietamente con l’amico Ciacco, che accortosi del mio buonumore. dimenticò affatto la sua gravità di bracco reale e, finché fu giorno, non fece altro per tutta la strada che puntar lucertole e guardare festoso a me e alle lodole che frullavano trillando dai campi di lupinella lungo la via.
Le promesse fatte furono puntualmente mantenute da ambedue le parti, e presi presto l’abitudine d’andare a caccia in quei luoghi, dove mi attirava la relativa abbondanza di selvaggina e la simpatia di que’ due spensierati monelli.
Ogni volta che mi scorgevano da lontano mi correvano incontro. Il buon Pipetta m’insegnava le brigate di starne e me le badava in tempo che le cacciavo, e Fiorella, tutta contenta, restava presso a qualche fonte a disporre le pietre per sederci a merenda e a preparare il fuoco per arrostire le castagne.
[…]
Masso della Gonfolina