Quella sera non stavo bene di spirito. Alla smodata allegria d’un intiero giorno passato sulle praterie in mezzo a cari amici, laggiù convenuti per esser pronti la mattina dopo ad aprire la caccia, era subentrata una profonda tristezza, alimentata forse dalla scena mestissima d’un tramonto di sole in padule. Alcuni de’ miei compagni, occupati in varie faccenduole riguardanti la caccia del domani, si erano accoccolati sull’erba, smontando schioppi, lustrando fiaschette, facendo cartucce e tante altre simili cose; altri, stanchi, s’eran buttati sopra uno strapunto di paglia nella Casina delle Guardie e s’erano addormentati; ed io, senza avvedermene, avevo preso lungo l’alberata e, passo passo, m’ero allontanato d’un buon tratto, quando, accortomi di non esser seguìto da nessuno, provai come un senso di repugnanza ad inoltrarmi maggiormente in quella solitudine; ma siccome ero stanco, prima di tornare indietro, mi fermai un poco per riposarmi.
Seduto sull’argine erboso d’un canale, lasciavo correre l’occhio smarrito su quella immensa superficie d’acqua stagnante e di lunghe cannéggiole, e fantasticando dinanzi a quel malinconico quadro, richiamavo alla mente i più minuti ricordi della prima giovinezza, e per un misterioso fenomeno psicologico, anco le più liete memorie prendevano in me in quel momento l’aspetto di tristissime cose.
E mi sentivo stringere il cuore, e quasi avrei pianto senza saperne di perché. Il caldo era soffocante e non dava respiro nonostante una leggera brezza di marino che sulla sera si era alzata languida languida e che, insieme con qualche raro fischio di uccelli palustri, rompeva l’alto silenzio di quella deserta pianura, correndo fra i biódi e le cannéggiole che, tremolando e lievemente fra loro percotendosi, mandavano un rumore come d’una moltitudine che lontana lontana applaudisse gridando e battendo le mani.
A mano a mano che il sole calava dietro le colline dal lato opposto del padule, si stendeva su quello un leggiero velo di nebbia bianchiccia, rendendo di minuto in minuto più squallida la scena che mi stava davanti. Ed intanto io pensavo; e quasi che un velo di nebbia si addensasse anche su i miei pensieri, mi si affollavano alla mente mille idee confuse e ondeggianti, che rapidamente passavano per dar luogo ad altre più delle prime annebbiate, confuse ed incerte. E quel vasto campo che un istante prima mi parlava di morte, lo vedevo ora popolato da una quantità innumerevole di pallide e rabbuffate figure padulane dalla fibra d’acciaio e dall’animo generoso e feroce, nel petto delle quali le passioni scoppiano con tal violenza, che il delitto ne diventa spesso il termine funesto. E idilli soavi e drammi sanguinosi si svolgevano dinanzi alla mia immaginazione, e la tristezza intanto si faceva maggiore nell’animo mio, quando una voce di fanciulla, di una di quelle tante miserabili che vivono felici in quell’ambiente mefitico i mesi e gli anni interi, lavorando con l’acqua fino alla cintola e il fango fino alle ginocchia, intonò un canto malinconico, piano come la superficie dello stagno, lento come le acque del canale, e portò fino a me queste dolenti parole:
È morto l’amor mio che amavo tanto:
Ahi! dal dolor più reggere non posso;
L’han portato laggiù nel camposanto,
E gli han buttato anco la terra addosso.
Dimmelo te, te che lo sai, gran Dio,
Se mai lo rivedrò l’angiolo mio;
Dimmelo te, gran Dio… ma il mio lamento
Vola e si perde sull’ali del vento.