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Renato Fucini, L’eredità di Vermutte -1/6

Da Paolorossi

Col tempo freddo e piovoso che s'era messo, il Caffè del Popolo quella sera era tanto pieno che, non essendoci posto per tutti a sedere, molti bevevano ritti intorno ai tavolini o passeggiando per la stanza. E, di fra la nebbia dei lumi a petrolio che filavano e il fumo delle pipe gorgoglianti, si alzava nella fuligginosa stamberga un tal diavoleto di risa e di voci squarciate che anche le figliole di Terzilio, benchè si struggessero di piantarsi lì dietro il banco a guardare e a sentire, eran costrette a stare in cucina, accanto alla finestra aperta, per salvar la modestia e per respirare.

A un tavolino, i giocatori di scopone discutevano sulle combinazioni della partita con tali urli da parere che si volessero scannare. A un altro, i cacciatori raccontavano le loro gesta con gran sinfonia di fischi, di canizze dietro alla lepre, di frulli di starne e di tonfi di schioppettate. E i cani accucciati sotto le tavole, destati di sussulto e ingannati, qualche volta, dalla perfetta imitazione, si mettevano ad abbaiare in coro e a piena orchestra, e in ultimo a guaìre dalle pedate dei padroni perchè si chetassero. A un'altra tavola, i puzzolenti e crudeli bracaloni, tenditori di reti e di panie, si raccontavano, con un tono di voce più dimesso, le loro prodezze della giornata, spincionando, zirlando, chioccolando e moltiplicando ogni cosa almeno per cinque.

Dalla tavola di fondo venivano voci più umane e risate più schiette. Era la tavola dei buontemponi di professione, dei cacciatori per amore dell'arte e dei novellieri, i quali, tra un frizzo e l'altro lanciato alle fanfaronate e alle bombe che scoppiavano intorno, raccontavano aneddoti, scene e avventure della loro vita di campagna.

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( Renato Fucini, L'eredità di Vermutte, tratto da "All'aria aperta", 1897 )

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