«E allora», disse furibondo il signor Cavaliere, «quando uno è testardo fino a questo punto, si fa così.» Tirò fuori il roncolo, si chinò e, ficcandolo nel terreno acquitrinoso del prato, levò un piccolo piallaccio sul quale era una macchia biancastra come di gesso spento; lo rinvoltò nella pezzola e piantatoselo nella carniera, sputò con rabbia un pezzo di canfora che teneva sempre in bocca pel dolore di denti, e senza neanche guardare i suoi compagni disse: «Io me ne vo!».
Pieve a Fosciana – Cacciatori al ritorno di una battuta di caccia – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno
I suoi compagni erano due: il Guardia della bandita nella quale si trovavano a caccia, e il sor Alceste, figlio del segretario comunale e promesso sposo alla figlia del signor Cavaliere, il quale, alla improvvisa sfuriata del futuro suocero, rimase allibito a bocca spalancata a guardare ora il Guardia, ora il signor Cavaliere, che zoppicando, perché i calli, con la variazione del tempo, non gli avevano dato pace in tutta la mattinata, proprio se n’andava senza voltarsi neanche una volta indietro. Aveva già passato il ponte della Fossaccia quando il Guardia si risentì:
«Sangue d’un cane! quelle lì non son le maniere. O dunque se la fatta a me non mi pareva di beccaccia, dovevo stare zitto e dirgli: ‘gnorsì, sissignore, come vòl lei?… Di beccaccia, Dio mi mandi un tremoto, non è positivo. E quando farò lo speziale m’ha a venire a dettar leggi su quest’affari; ma ora come ora, a Gianni Cerri no, per los Deo santissimo benedetto!».
Il Sor Alceste sospirava. E il Guardia continuò:
«Lei signorìa ha fatto da omo a non riscaldarsi. Ma quando m’ha detto che come cacciatore aveva più stima a me che a lui, gli avre’ dato un bacio. E come l’ha presa attraverso! Ecco, ora si fa per dire, o che son mosse quelle da un signore par suo? E ora che ha preso la fatta con sé, com’essere, che ne vorrà fare?».
E il sor Alceste guardò la buchetta fatta dal roncolo del sor Cavaliere e sospirò di nuovo.
«Se a me, per esempio, mi dicessero: Cerri, te lo vòi giocare il cane? Mi gioco anco lo schioppo, risponderei, che la fatta è di péccola o, a sprofondare, di porciglione; ma di beccaccia no, eppoi no, anche se Santa Lucia benedetta m’avesse fatto la grazia di vedergliela fare.»
Il signor Alceste non dava segni d’attenzione; per cui il Guardia gli domandò:
«Che si deve andar via anche noi, oppure s’ha a guardare…? Badi! stia attento, perché ‘l mi’ cane ha un fiato nel naso».
Difatti l’egregio Burrasca, un cane che Gianni Cerri diceva che neanche ‘n palazzo Pitti di quelle razze li non n’avevan mai bazzicate, se n’andava a vento, a testa alta, indicando d’aver nel naso qualche cosa di buono davvero.
«Avanti! avanti, sor Alceste, venga via, venga via!», diceva il Guardia a mezza voce, seguitando il cane. E il sor Alceste, tutto cascante e sempre pallido come un morto, si avviò dietro al Cerri, che badava a dire:
«Non faccia furia, non faccia furia, perché tanto, alle mani di Burrasca, si va sul sicuro; punta che pare un masso… Ora sente a bono davvero! S’accosti, s’accosti, perché gli si potrebbe levare anche avanti… Ma che canino! cento lire m’avrebban dato que’ signori di padule! Ma io gli mandai a dire… Guardi! Ma lo guardi ora, eppoi mi dica se un cristiano potrebbe andare con più delicatezza sull’animale!… e io gli mandai a dire che se anche Vittorio Emanuelle…».
Il Cerri non finì. Burrasca, dopo una braccata furiosa, aveva agguantato roba. Gianni riconobbe subito il posto dove, il giorno avanti, il Piovano aveva fatto colazione con quel signore forestiero, cambiò colore, corse, s’avventò a Burrasca, e fu in tempo a fargli posare la seconda buccia di cacio con una tal pedata furibonda che se l’avesse colto in pieno, il povero Burrasca avrebbe finito per sempre di far digiuni.
«Gianni», disse finalmente il sor Alceste, che assorto ne’ suoi pensieri non aveva visto la scena che era accaduta, «se ti vuoi trattenere, fai pure il comodo tuo: io arrivo qui dal contadino a bere un bicchier d’acqua e me ne vado.»
Ma Gianni non poteva intendere, perché era già un chilometro distante, sempre a corsa dietro al cane, quando, non potendolo raggiungere, per fargli pagar cara la brutta figura che gli aveva fatto fare, mandando fischi e urli, gli lasciò andare dietro una schioppettata che fortunatamente non lo colse.
Alle ventiquattro e mezzo il padre d’Alceste, tutto rannuvolato in viso, bussava alla porta del signor Cavaliere suo buon amico; ma la serva gli disse che era fuori. Domandò allora della signorina Ginevra.
«È sul letto, perché si sente male.»
«Potrei vedere la signora Irene?»
«È di là in camera della signora Ginevra, tutta sottosopra; e io direi di lasciarle stare.»
«Ritornerò più tardi.»
Altopascio – Cacciatori inizi 900 – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno
Il signor Cavaliere intanto, dopo aver sigillato accuratamente in una cassettina di truciolo il piallaccio colla fatta, era andato a consegnarla al procaccia insieme con una lettera, raccomandandogli di depositare il tutto in proprie mani della persona alla quale era diretto, via tale, numero tale, secondo piano a destra:
«Procaccia, mi raccomando!».
«Lei non dubiti.»
All’or di notte tutto il paese era al fatto dell’accaduto.
La serva del Cavaliere l’aveva detto con segretezza, dalla finestra sulla corte, all’ortolana; e l’ortolana l’aveva detto, come in confessione, al suo marito, il quale, dopo dieci minuti, l’aveva fatto risapere a bassa voce nella calzoleria del Nardini, che quella sera appunto era più zeppa del solito dei medesimi fannulloni freddolosi, seduti in giro al braciere di rame, coi capi abbassati su quello, a mescolare il fumo e lo sfriggolìo delle loro pipe lerce di gruma.
Di lì partì la bomba: e un quarto d’ora dopo non v’era anima viva, dallo zoppo di Lacchie al Sindaco, e da Melevizze al signor Piovano, che non s’occupasse seriamente della cosa. Come capitò a proposito quell’avvenimento per gli sfaccendati del paese! Erano cinque o sei giorni che in verità non sapevano che pesci si pigliare. Passò quell’omo coll’orso tre settimane fa, è vero; ma se n’era già parlato tanto, s’eran buttati all’aria tanti libri di storia naturale, s’erano agitate tante questioni zoologiche in canonica, dallo speziale e da Cencio tabaccaio, che ormai tutti erano stufi. Era stata proprio un’annata senza risorse. Che altro era accaduto? Mah! poco o nulla: lo scandalo di que’ villeggianti col su’ figliolo che s’era messo colla macellarina, ma finì presto perché se n’andarono; quelle po’ di legnate quella sera della prova della banda; eppoi? È finito qui. Ma ora, se Dio vòle, ce n’è per tutti, se l’oste ne còce.
Ci furono molti quella sera che non finiron neanche di cenare per andar fuori ad informarsi meglio; e molti lasciarono perfino la briscola e il fiasco, perché, secondo loro, l’affare era serio.
In farmacia, dopo l’otto, v’eran già cose gravi, e lo dimostravano anche al di fuori i capannelli di curiosi che vi passeggiavano davanti, accostandosi più che fosse possibile alla vetrata; e lo dava a divedere anche il Piovano che al rumore che veniva di là dentro era sceso sul cimitero in ciabatte e colla pipa per ascoltar meglio e per domandar notizie ai passanti.
«A me non me la cantate, caro speziale, perché io l’ho vista!», diceva il Sindaco passeggiando concitato in su e in giù per la bottega. «Me l’ha fatta vedere prima di portarla al procaccia; e per me il Cavaliere ha ragione!… Che ne dice lei, maestro? Eppure c’era anche lei!»
Il maestro della banda era di parere contrario; ma non volendo compromettersi, badava a strisciare la groppa al gatto che gli era saltato sulle ginocchia, e non trovava la via a rispondere.
Ma finalmente, per uscirne, disse a fior di labbra:
«Eh! sì! lo direi anch’io».
«Allora poi cotesto, abbia pazienza se glielo dico, cotesto si chiama aver quattro facce come Giano della Bella!», gridò lo speziale invelenito, che la mitologia l’aveva sulle dita quasi più della storia. «Sissignore! lei, precisamente lei, dieci minuti fa, prima che entrasse il signor Sindaco, si spassionava tutto in un’altra maniera! Giano della Bella, sissignore, caro il signor maestro dei miei tromboni!»
«Ma se lei avesse un po’ d’educazione», saltò su il maestro masticando veleno, «lei non offenderebbe, e lei è un ignorante!»
Il medico che in quel momento smaltiva taciturno la solita sbornia d’aleatico asciutto:
«Bravo!», urlò al maestro, al quale curava la moglie anche quando stava bene. «Bravo!»
«Eh sì! anche lei è un buon arnese!», gridò al medico lo speziale, più inviperito che mai.
«Si sanno tutte, non pensi, noi! Si sa, non abbia paura, di quel disgraziato che ammazzò alle Case Rosse, eppoi, sotto sotto, andò a dire che avevo sbagliato io la ricetta!… Oeh! non s’accosti al banco, perché gli rompo un barattolo nel muso!… Noe, noe! lasciami stare anche te, camorro sdentato!»
Quest’ultima apostrofe era toccata alla sua moglie che lo reggeva per le braccia, la quale mandò uno strillo acuto al tonfo che fece, sfondando uno staccio attaccato al muro, la ciotola del polverino tirata con quanta forza aveva, dal medico, il quale urlando:
«Vado via per non compromettermi!» prese la porta e se n’andò.
Di fuori intanto s’eran già formati i partiti; ed il medico ebbe una salva di fischi dalla metà di que’ venti o trenta che s’eran radunati, mentre l’altra metà batteva le mani e urlava «Bravo!» a squarciagola. E lo speziale, che era corso sull’uscio, gridava da sentirlo a un miglio di distanza:
«C’è il tribunale, però, per la canaglia di cotesta risma! c’è il tribunale! E domani… stasera… subito!… tanto lo vo’ dire a tutti, sissignore! a tutti lo vo’ dire che quel disgraziato delle Case Ros…».
Ma non finì perché il Sindaco gli tappò la bocca col pastrano, e con un spintone lo rificcò in bottega.
Il maestro della banda, uscendo, poco dopo, colla coda fra le gambe dietro al Sindaco, si provò a dirgli:
«Sa? e’ son gente quelle che dopo cena…».
«Che li era anche un calunniatore me l’avevano detto…»
«Ma lei signorìa ora…»
«Basta così! Della fiducia immeritatamente accordatami da Sua Maestà saprò farne quell’uso che crederò migliore; intanto non mi occorre nulla da lei; vada pure, ché a casa so andarvi anche solo.»
E si allontanò soddisfatto e altamente compreso del suo dovere, mentre il maestro schizzando bile se n’andò anch’egli a casa, dove quella sera devon esser accadute di gran cose vergognose, dissero i casigliani di sotto, perché si sentiron di gran tonfi e di grand’urli della sora Giuseppina, povera creatura, fin dopo la mezzanotte sonata. Ce ne passa tante, poverina, con quell’omaccio!
Il Piovano, che per raccattar notizie aveva mandato lo Scardigli a prendere un sigaro da cinque e una scatola di fiammiferi, seppe che nella bottega della Biagiotta s’eran picchiati, e gli avevan rotto un vetro che costava du’ franchi. In fattoria poi, il sor Gustavo e il Rapalli (un fiero agente elettorale che prima d’aver sette ponci in corpo non andava mai a letto) avevan fatto una scommessa di cento lire.
«Poco giudizio, poco giudizio!», osservò il Piovano. E dopo aver disputato un po’ col Cappellano, al quale quella sera dette anche di bestia mentre in tempi normali lo chiamava solamente zuccone, dette un’occhiata al tempo e se n’andò a letto.
In casa del Cavaliere non si sa quello che accadesse, perché dopo tornato lui da consegnare quella roba al procaccia, tutte le finestre restarono chiuse ermeticamente, e soltanto l’uscio di strada si riaprì un momento alle dieci quando Gustavo tornò di fattoria; poi silenzio perfetto.
In casa del Segretario erano sgomenti. Le donne non fecero altro che piangere tutta la sera; lui andò a letto alle nove con un dolor di capo da impazzire, e il povero sor Alceste non trascurò, è vero, per distrarsi, la sua occupazione geniale di fare fiorellini di carta colorata, ma svogliato e senza ombra d’ispirazione.
Nessuno a cena volle mangiare, e lui solo, per non dare, disse, altri dispiaceri alla mamma, inzuppò un biscottino nel rosolio, e alle nove e un quarto si ritirò.
Siamo all’ottavo giorno dopo l’accaduto. Il postino è disperato perché il signor Cavaliere da sei giorni non gli lascia pelle addosso, e lo minaccia di fargli perdere il posto, perché, secondo lui, deve avergli smarrito una lettera. O quell’altro noioso del Rapalli che ha la febbre addosso per via della scommessa! Ma stamani gliel’ha detto, veh!
«O senta: la lettera non c’è, l’ha capita? e smetta di rompermi… Perché se siamo poveri, non ci hanno mica a mangiare a morsi peggio del pane… Sissignore! E quando la lettera ci sarà, accidenti a chi gliel’ha scritta!»
Il postino si lasciò andare un po’ troppo, lo disse anche il Nardini; ma era compatibile, perché bisogna sapere che il Rapalli da due anni si scordava di dargli il Ceppo, e il povero postino l’avrebbe infilato, tanto più che da otto mesi, facendo il Rapalli all’amore con una di Certaldo, tutte le settimane c’era due o tre lettere che parevan processi, e gli toccava portargliele fino a casa sua, quasi un miglio più su della Madonna del Grilli.
«Questi bighelloni mangiapanacci a ufo!», continuò il postino, fermandosi a dare una cartolina alla Biagiotta.
«Che v’hanno fatto, che v’hanno fatto, postino?», domandò la Biagiotta, che a sentir dire male del prossimo ci stava con più devozione che alla messa cantata.
«A me? nulla. Ma da una parte gli stanno bene, veh! Intanto quel prepotente del dottore, se Dio vòle, se ne va.»
«A rotta di collo!»
«Brava Biagiotta! a cotesta maniera!»
«E più che altro, l’ho caro per quella strega muffosa della su’ moglie. Bella, collo spènserre di velluto! e poi lo leva e va a rigovernare. L’ho vista io, sapete? con tutta la su’ superbia che quando passa di qui a naso ritto, par che si puzzi tutti!»
«O quell’ignorante del maestro, Biagiotta?! Già, quello lì, levato de’ piatti di cucina, credo che non sappia sonare neanche le campane.»
«Non potevi dir meglio. E per me, se avanti che se ne vada, gli dessero un carico di legnate, come l’ebbe quello delle Scòle anno di là, vorre’ dare una candela d’un paolo al Santissimo Crocifisso, e da cena a tutti. O del Guardia Cerri l’avete saputo?»
«Che gli hanno fatto?»
«Dice che è sotto processo, perché quel giorno che il signor Cavaliere e Alcestino si presero a parole ne’ prati dell’Arzillo, tirò, dice, una schioppettata al su’ cane, e prese invece un contadino che era a far l’erba in una fossa, che l’acciecò mezzo, e gli fece subito referto.»
«Non lo sapevo.»
«È un affar di nulla! Fu arrestato la mattina subito, e dice che gli ci vorrà du’ mesi di prigione e secento lire di multa, se gli basteranno.»
«Ci ho gusto!»
«Sode!»
«Guah! ecco quello sbuccione del procaccia. O che va dal sor Cavaliere?»
«Pare!»
«Ah! ho capito. Di certo gli porta la risposta di quella famosa roba.»
«Mah!»
«A proposito! e questo matrimonio dice che sia bell’e andato all’aria. Ma sia vero?»
«Dice di sì. Meglio per lui, povero sor Alcestino, meglio per lui.»
«Arrivederci, Biagiotta.»
«Addio, postino. Vi volete rinfrescare?»
«Grazie tante; un’altra volta.»
«Come vole.»
«Addio.»
«State bene, postino.»
La tranquillità monotona del paese era in quel giorno apparentemente la medesima, ma gli animi bollivano. Il Segretario era ben visto da una gran parte della popolazione per la sua bontà; il Cavaliere era nelle grazie dei più pei suoi quattrini. E i partiti s’erano definiti nettamente in questa occasione, e si guardavano in cagnesco.
Il procaccia s’era fermato davvero a bussare alla porta del Cavaliere, ed era già entrato, quando Cencio tabaccaio, che era sull’uscio a sbirciare, chiamò il Rapalli:
«Sor Rapalli, sor Rapalli!».
«Che c’è?», domandò il Rapalli che era occupatissimo a non far nulla dal caffettiere difaccia, per arrivare all’ora del desinare.
«Il procaccia è andato dal sor Cavaliere. Secondo me ci ha la risposta di quella roba. Vada, vada.»
«Vado subito. E voi, Cencio, fatemi il piacere: mandate ad avvisare il sor Gustavo che a quest’ora dev’essere in quel posto di certo.»
Il Rapalli andò dal Cavaliere; Gostino corse a cercare del sor Gustavo, e Cencio rimase a far gente sulla bottega.
La notizia si sparse come il baleno; lo speziale fece capolino dagli impostoni socchiusi, di sopra alle spalle di sua moglie: il Piovano scese sul cimitero affettando la più grave indifferenza; il fabbro e il calzolaio vennero fuori coi loro arnesi in mano figurando di guardare il tempo e dopo poco tutti gli abitanti del paese, eccetto il Segretario e il sor Alceste, che la Biagiotta giura d’aver visti alla finestra a guardare dalle stecche della persiana, erano fuori per qualche loro faccenda straordinaria che non volevano dire a nessuno.
Un gruppo abbastanza importante s’era radunato davanti all’Appalto, dove Cencio s’era preso col Nardini, il quale sosteneva essere impossibile anche per un professore il decidere sulla provenienza della fatta.
«Ma, abbiate pazienza», badava a dire Cencio, «cotesto è segno che non avete girato e che del mondo ne conoscete poco. E io avre’ fatto precisamente come il signor Cavaliere, perché per decidere non ci voleva altro che un professore… oh! aspettate… come li chiamano?… insomma un professore come quello che il signor Cavaliere gli ha mandato a deciferare l’oggetto.»
«O che volete che vi dica? potrà anche stare, ma me non mi persuadete.»
«E allora vòl dire che con voi non ci si ragiona, perché la chimica… ora m’è venuto. È un professore di chimica quel professore. E quando a quella gente lì, vedete? gli avete fatto vedere, vo’ dir poco, quanto di qui al pozzo, con rispetto parlando, anche uno sputo, loro vi sanno dire fino a un puntino se il vostro sangue sarebbe come se uno dicesse… anche se uno è stregato. Mi rammento che quando ‘l mi’ figliolo… Riverito, sor Gustavo, vada, vada, perché c’è roba.»
Il sor Gustavo passava in quel momento davanti all’Appalto, camminando a gran passi verso casa. Aveva la faccia lieta e tanto sicura, sognando la vincita delle cento lire, che Cencio ne prese buon augurio per vincere quella beccaccia che aveva scommesso col Cappellano; ma appena fu in casa, la scena cambiò aspetto.
Il Cavaliere aveva una lettera aperta in mano, scoteva il capo, e guardava desolato in un amaro silenzio il Rapalli, che, appoggiato alla spalliera d’una poltrona, stringeva le labbra per non lasciarsi scappare una risata, e ad intervalli, scotendo anch’egli la testa, diceva:
«Eh! pur troppo che è così!».
Gustavo capì che bisognava stare zitti, e si mise in disparte a sfogliare un album di fotografie, senza aprir bocca. Dopo qualche minuto di silenzio, il Rapalli fece un inchino al Cavaliere; strinse la mano a Gustavo e se ne andò.
Appena fu per le scale, s’ingozzò il cappello fino agli occhi, si rizzò il bavero del giubbone foderato di pelle di lepre, lasciandosene abbassata la punta dalla parte dell’Appalto, escì fuori rasentando il muro, e quando vi fu giunto davanti, Cencio, l’abbordò dicendogli:
«Ma dunque è deciso, sì o no? perché a me mi preme la beccaccia del Cappellano. Si pòl sapere di che bestia era questa famosa fatta?».
Il Rapalli lo tirò da parte, e, accostatagli la bocca all’orecchio:
«Zitto! Cencio», gli disse, «mi raccomando, se no la prima fischiata è nostra… Era di pollo! »
(Renato Fucini, Il matto delle giuncaglie, in Le veglie di Neri: paesi e figure della campagna Toscana, 1882)