Christian Raimo è uno scrittore, traduttore e insegnante. Tomaso Montanari, invece – recita la pagina del suo profilo sul sito della casa editrice minimumfax: personalmente non lo conoscevo – è «storico dell’arte». Il primo, persona simpatica e culturalmente preparata, lo leggo spesso, e spesso anche molto volentieri. Mi spiace, quindi, avere l’impressione che da qualche tempo alla sua capacità critica si sia sostituito un atteggiamento sbrigativo e sterile verso il neo segretario del PD, Renzi, spesso basato su presupposti non propriamente granitici.
Montanari e Raimo su Renzi – mi è parso di capire – la pensano allo stesso modo: sono due intellettuali, entrambi lo considerano troppo mediatico, culturalmente inadatto e – soprattutto – espressione di un mondo che con loro non dovrebbe avere a che fare. Con «loro» ovviamente non mi riferisco soltanto ai due singoli, ma a un più esteso gruppo di veri o aspiranti membri illuminati della sinistra intellettuale, l’espressione personificata della decantata diversità culturale del fu PCI – quella che, tra le altre cose, rende Renzi «un mediocre».
Qualche settimana fa Guido Vitiello sul Foglio ha analizzato con dovizia di particolari il rapporto inquieto e contraddittorio dei nipoti politici di Berlinguer con la loro storia, la loro cultura, la loro identità, e il loro (cito il titolo del libro di Francesco Piccolo, che sto terminando in queste ore) voler «essere come tutti».
C’è qualcosa di ironico nel fatto che la nostalgia di un’epoca autentica, non ancora contaminata dalla tv e dallo spettacolo, sia alimentata da meccanismi della memoria collettiva che appartengono proprio alla società dello spettacolo e alla cultura televisiva, non così diversi da quelli che ispirano i remake affettuosi dei vecchi film, la poetica del revival, i canali tematici che ritrasmettono programmi di trent’anni fa.
Il problema è che essere «come tutti» è sbagliato a prescindere se si pensa di vivere in un’epoca sbagliata, scevra di valori veri, votata al dominio della tv e del filisteismo da quiz show. E chi si propone – in modo manifesto – di parlare a tutti, chi non combatte l’uomo medio ma lo vede come un interlocutore diventa un sottoprodotto culturale, una quinta colonna di quelli al di là delle barricate, «un mediocre».
Ecco, forse, perché Raimo e Montanari hanno scritto e pubblicato un articolo di precisa e puntuale critica alle didascalie di un «percorso museale» curato da Eataly a Firenze, chiudendolo con queste parole:
Esci da Eataly pensando all’uso del Rinascimento che fa il grande amico di Farinetti, Matteo Renzi: che non scrive un libro senza condirlo di strafalcioni su Leonardo, Michelangelo e Brunelleschi, che fora i muri di Palazzo Vecchio per cercare affreschi inesistenti e annuncia di voler costruire facciate progettate 500 anni fa.
È la stessa idea di cultura ridotta a strumento per venderti qualcosa: poco importa se il prosciutto, o una candidatura. E ormai non riesci a capire se è Renzi che imita Farinetti, o Farinetti che imita Renzi.
L’unica cosa certa è che il Rinascimento non è mai stato così lontano.
Non sequitur a parte, pare – qui – che la colpa di Renzi abbia connotati antropologici: non è come noi, la cultura non gli interessa, ha altri valori, è la Nemesi. La sensazione che lo scontro voglia essere di civiltà, peraltro, è confermata da un altro articolo, ben più direttamente rivolto al politico fiorentino, scritto da Montanari a novembre. Montanari introduce stilettate di violenza verbale senz’altro efficace, una buona dose di approssimazioni e fatti “rivisitati” con un monito:
Se i frutti della inettitudine amministrativa di Renzi sono sotto gli occhi di tutti i fiorentini, i rischi insiti nella sua visione politica ultraliberista e programmaticamente anticostituzionale non appaiono chiari né alla base del Partito Democratico né all’opinione pubblica nazionale
Per poi puntualizzare in buona sostanza che Renzi è figlio di un Dio minore, a cui ovviamente della questione morale importa poco.
Matteo Renzi è l’ultimo epigono del provinciale ma aggressivo neoliberismo italiano. Egli confessa apertamente che il suo modello è Tony Blair: l’ultimo erede della stagione di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. È un modello culturale che, per dirlo con le parole dello storico anglo-americano Tony Judt «ha cresciuto una generazione ossessionata dalla ricerca della ricchezza materiale e indifferente a quasi tutto il resto».
La retorica inconcludente e molto manichea di queste righe è palese. A Raimo, in primis, vorrei far notare che la «visione politica ultraliberista» di cui si parla nel testo è meno liberista, in senso stretto, di quella proposta alle primarie da Civati – il candidato che lui ha deciso di votare – con Filippo Taddei, oggi parte della segreteria PD. Ma soprattutto mi piacerebbe poter parlare idealmente all’insieme di intellettuali che ha fatto – consciamente o inavvertitamente – della resilienza culturale la sua bandiera sventolata per mostrare orgogliosi la propria identità, senza neanche lo sforzo di celarne il presunto carattere di superiorità ontologica.
A loro vorrei dire che magari il «neoliberismo italiano», trattandosi nella sostanza di qualcosa di mai esistito, sarà un problema di cui occuparsi nel futuro prossimo. Ma di certo ritagliarsi uno spazio intonso ai confini del mondo attuale – nostalgicamente dipinto come corrotto e inadatto al proprio spessore – e pretendere di poter stabilire cosa è o non è giusto, funzionale e auspicabile per quella realtà è un problema ancora maggiore.
Nell’immagine in alto: Vittorio Gassman ne “La terrazza”, di Ettore Scola (1980).
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