Renzi e il piacere di chiamarsi Ernesto

Creato il 24 febbraio 2014 da Astorbresciani
Renzi, il nuovo Capo del Governo, non si chiama Ernesto, ovviamente, bensì Matteo. L’associazione di idee con la commedia teatrale di Oscar Wilde, The importance of being Earnest – il cui titolo gioca sull’ambiguità della parola “Earnest”, che in inglese indica il nome proprio Ernesto ma significa anche “serio, affidabile e onesto” – mi è suggerita dalla scoperta che la prima mossa politica del leader fiorentino, cioè la formazione della nuova squadra governativa, è viziata da un ancestrale difetto italico. Quale? Il nepotismo. È di questo che voglio scrivere oggi, di come sia odiosamente diffusa in Italia, da parte di chi detiene un’autorità qualsivoglia o esercita una forma di potere, la tendenza a favorire parenti e amici a prescindere dalla loro reale attitudine o capacità. È un vizio spudorato, una cancrena che non risparmia nessuno. Ed è, purtroppo, una regola non scritta ma dilagante in politica e in ambito accademico e sanitario (dove il nepotismo è detto baronismo), per quanto sia comune anche nel mondo del lavoro più in generale e nel tessuto socio-culturale. Il vecchio e odioso slogan “Lei non sa chi sono io!” attinge proprio all’importanza, e quindi alla necessità, di chiamarsi Ernesto (dove Ernesto sta per “il figlio di…”, “il nipote di…”, “la moglie o il marito di…” ecc). Guai a non chiamarsi Ernesto nel nostro Paese dove non contano i meriti, le credenziali e l’esperienza, ma vale solo l’appartenenza o vicinanza a un nucleo familiare, una lobby, un circolo vizioso. Intendiamoci, il nepotismo è una piaga che colpisce molte nazioni. La Cina, l'Indonesia, la Malaysia, il Sud-America e gli U.S.A. (basti pensare alla saga delle famiglia Kennedy e Bush) si distinguono. Non siamo dunque gli unici a privilegiare i parenti e gli amici, anche se possiamo forse vantare la paternità di questa premurosa abitudine. Ne abbiamo depositato il brevetto ai tempi dei Cesari. Già nell’antica Roma era facile che un perfetto imbecille, purché amico o amante di un imperatore, facesse una rapida carriera. È paradigmatico che Caligola arrivasse al punto di nominare senatore il suo cavallo. Ma è nel Medio Evo e nel Rinascimento che abbiamo affinato la tecnica nepotistica e il merito è attribuibile in gran parte alla Chiesa. Molti papi e vescovi cattolici si sono distinti in passato per avere messo al mondo e allevato come nipoti i figli illegittimi, cui concedevano privilegi e prebende. Il caso delle famiglia Borgia è il più eclatante, però Papa Alessandro VI non fu certo l’unico a premiare con la porpora cardinalizia la propria prole e con i titoli nobiliari le proprie amanti. Anche Paolo III, immortalato da Tiziano, mostrò un debole per i propri nipoti. La Storia ci insegna che l’odiosa pratica cessò solo nel 1692, quando Papa Innocenzo XII emise una bolla che proibiva la concessione di proprietà, vitalizi e incarichi ai “nipoti”. In realtà, sia il “piccolo nepotismo” (cariche ai propri familiari all’interno dello stato pontificio) che il “grande nepotismo” (dono di territori e infatuazione) continuarono a lungo. Siamo in qualche modo debitori della Chiesa se abbiamo istituzionalizzato il nepotismo e la corruzione in ambito politico e ovviamente non poteva essere diversamente; l’epicentro del fenomeno, poi allargatosi a macchia d’olio, è sempre stato Roma. Sta di fatto che l’aria che si respira laggiù, così dolce quando soffia il ponentino, deve contenere qualche strano virus, giacché anche i puri e duri ne restano contaminati. Non è forse vero che chiunque approdi allo scranno finisce per cedere alla tentazione di godere quei piccoli-grandi vantaggi che lo stesso assicura? La squallida storia della famiglia Bossi e della Lega che non perdona ma si adegua all’andazzo generale è un esempio di come sia più facile (e conveniente) arrendersi al nepotismo come sistema anziché sradicarlo. Nessuno, in Italia, può lanciare la prima pietra. A destra come a sinistra, passando per un centro divenuto invisibile, non c’è uomo politico o amministratore pubblico che non approfitti del suo potere per “dare una mano” a parenti e amici. Mi correggo, qualcuno c’è. Ma il suo DNA è alieno. Potrei citare diecimila casi all’insegna del nepotismo balzati all’onore della cronaca. A caso, mi vengono in mente gli scandali della Protezione Civile nell’era Bertolaso, il clientelismo-nepotismo della regione Sicilia, le infinite e sfacciate operazioni promozionali dei carneadi “figli e amici di” rese possibili dalle liste bloccate. Da quanto è diventata una prassi consolidata piazzare parenti e sodali nelle liste elettorali, il nepotismo ha avuto un nuovo boom. È un ritorno all’antico, un miserabile oltraggio all’intelligenza, alla valentia e alla pazienza degli italiani onesti e capaci, per i quali la vita è una corsa ad ostacoli, spesso insormontabili. Ci sarà sempre qualche cretino strafottente che ci soffierà il posto, qualche stronzo beato che ci supererà sulla corsia preferenziale. La nostra colpa è di non chiamarci Ernesto. Cosa c’entra Matteo Renzi con tutto ciò? Beh, c’entra eccome. Lui è il nuovo che avanza, l’uomo della Provvidenza che dovrebbe cambiare le cose. O no? Peccato che il suo primo passo sia claudicante. Nell’elenco dei ministri del suo governo, brillano nomi poco noti e qualcuno sconosciuto. Bene, era ora che avvenisse l’auspicato cambio generazionale. Largo ai giovani! In linea di principio sono d’accordo, purché i giovani siano veramente meritevoli e abbiano dei requisiti tali da farli preferire a persone più anziane ed esperte, oltre che irreprensibili. Ebbene, mi chiedo quali criteri abbiano portato ad alcune scelte che lasciano basiti. Ne citerò solo una, come esempio. Chi è Marianna Madia, nominata ministro della Semplificazione e della Pubblica Amministrazione? Dev’essere un genio o quanto meno un fenomeno per avere ricevuto in dono un dicastero a soli trentatre anni! Invece… Ieri, leggendo un articolo di Piergiorgio Odifreddi, che non ha peli sulla lingua, ho scoperto che la signorina Madia è una raccomandata di ferro. Odifreddi precisa che “è pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante. È figlia di un amico di Veltroni, giornalista Rai e attore. È fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano. È stagista al centro studi Ariel di Enrico Letta.” Di fronte a cotante credenziali strabilio e mi inchino. La Madia, eletta nel 2013 solo grazie al Porcellum e subito entrata nelle grazie di Renzi, sebbene si sia distinta unicamente per il suo assenteismo, dev’essere un’unta del Signore.Renzi l’ha inserita nella sua squadra dei miracoli annunciati con una disinvoltura che nemmeno Rodrigo Borgia possedeva. Come si spiega che l’uomo che dovrebbe rottamare la vecchia politica, bonificando le paludi romane e ponendo fini a certi vizi, commetta un peccato di nepotismo-clientelismo così grave da far sorgere il dubbio che non sia il nuovo Messia ma l’ennesimo falso profeta? Temo che la musica non cambierà mai, indipendentemente dai suonatori. E sospetto che Renzi sia un pifferaio magico. Comunque, il suo esordio è un passo falso, un autogol fatto al primo minuto di gioco. La nomina a ministro della Madia rende meno scandalosa quella della Kyenge da parte di Letta, il che è tutto dire. Non c’è dunque fine alla vergogna. Il nepotismo è invincibile.Orbene, ai poveri italioti che non hanno la fortuna di avere un parente o un amico che siede nella stanza dei bottoni, suggerisco di recarsi all’ufficio anagrafe del proprio comune e cambiare il proprio nome. Sceglietene uno importante, però, che apra le porte. Chissà, le soddisfazioni che non avete ottenuto grazie ai vostri meriti potreste conquistarle grazie a un’assonanza, un’omonimia o una presunta parentela. In fondo, come diceva Totò, “chi non si arrangia è perduto”.

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