Non venitemi a dire che gli “anni difficili” erano più difficili dell’oggi. La povertà era riscattata dalla speranza, l’ignoranza era una condanna o una colpa, l’ambizione era un vizio, come l’avidità, l’egoismo era un difetto, la vanità era una debolezza, il cinismo era una depravazione, come tutto il resto soggetto a riprovazione e scandalo.
Se avevi un po’ di fortuna, anche se non eri nato nel posto giusto, nella casa giusta, dalla famiglia giusta, per via di quella lotteria naturale che giusta non è mai, potevi imbatterti in buoni maestri, potevi sottrarti alle visioni maggioritarie, potevi “non accettare”, senza essere considerato gufo o pazzo, potevi incontrare bei libri e bei film, perfino tra quelli premiati, potevi addirittura convincerti che se ti avvicinavi alla politica, avresti contribuito a “cambiare il mondo” oltre che la tua vita, potevi addirittura persuaderti che il “miracolo economico” non sarebbe sfociato nell’idolatria dei consumi, potevi addirittura illuderti che la belva del capitalismo si potesse addomesticare con le riforme, che la marcia di guerra dello sfruttamento potesse essere fermata dal fronte unitario dei lavoratori. E le utopie non erano debolezze romantiche di allucinati fuori dalla realtà, ma il modo per sopportarla immaginando di saperla mutare in altro e in meglio.
E se avevi un po’ di fortuna potevi anche godere dei buoni esempi, noiosi da accettare e faticosi da emulare. Ma poi scoprivi che invece rendevano la tua esistenza e il tuo pensiero meno ardui, magari un po’ manichei, ma più luminosi e chiari perché ti aiutavano a distinguere nella nebbia benpensante e nel grigio delle convenzioni, tra bene e male, giusto e ingiusto, rei e vittime, fascisti e partigiani, potenti e deboli, verità e menzogna, diritto e privilegio, privato e pubblico, carità e solidarietà. Perché le parole non servono, servono le azioni, serva la strada che qualcuno ha percorso prima di te e quello che è diventato, che è e che fa. E cultura e competenza erano frutto di una trasmissione, prodotto di una storia personale e collettiva, legate al lavoro, accertate da “esami” che attestavano le capacità raggiunte, riti di passaggio attraverso i quali si guadagnava prestigio o, e non è poco, si confermava dignità e merito, di modo che erano riconosciuti il valore, l’utilità e l’interesse per sé e per gli altri.
Invece ieri è stato formalizzato il paradosso: il premier è stato assolto perché non era “addetto ai lavori”. La Corte dei Conti che lo ha sollevato dall’accusa di danno erariale per i contratti di assunzione nella sua segreteria tra il 2004 e il 2009, ha motivato la sentenza in quanto l’allora presidente della Provincia di Firenze non era in grado di “percepire le illegittimità del proprio operato”. “Dopo due condanne mi hanno assolto. Ristabilita la verità”, gongolava via Twitter che il Collegio abbia ritenuto di poter rilevare l’assenza dell’elemento psicologico sufficiente a “incardinare la responsabilità amministrativa, in un procedimento amministrativo assistito da garanzie i cui eventuali vizi appaiono di difficile percezione da parte di un ‘non addetto ai lavori’”. Insomma Renzi viene assolto perché non in era in grado di percepire le illegittimità del proprio operato? Bella referenza per un premier e leader. Ma bell’esempio per i datori di lavoro che possono interpretare comportamento e sentenza come caso di studio esemplare sull’arbitrarietà dispotica offerta ai padroni da regole che hanno cancellato definitivamente garanzie, diritti, prerogative, conquiste e leggi, comprese quelle morali, abrogando di fatto la giustizia.
L’ignoranza che la giurisprudenza non ammette, è stata così legittimata da una sentenza. Ma è lo spirito del tempo. Perché dovremmo stupirci dell’abbandono scolastico: negli ultimi 15 anni quasi 3 milioni di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi, quando ignoranza e incompetenza vengono premiati attraverso fortunose e fortunate carriere? Quando nel manifesto del governo che deve propagandare le misure per una scuola moderna e competitiva fa bella mostra di sé un madornale errore ed orrore di ortografia? Quando una ministra è nota per aver rivendicato ignoranza e impreparazione? Quando un’orchestra di ragazzi invitata per motivi propagandistici a celebrare il compleanno del governo più ostile a loro e al loro futuro, viene trattata come un gruppo di molesti posteggiatori davanti alla pizzeria del lungomare, che disturba le ciance dei clienti che si avventano sul fritto misto?
In quest’ultimo caso nutro qualche speranza. Mi auguro che si tratti di una vicenda esemplare che ammaestri i ragazzi e i loro genitori che si erano prestati a questa liturgia elettoralistica e a officiare questa cerimonia anestetica di marketing. E che serva ad educare i i giovani musicisti delusi a suonare altre note, quelle della radicalità, dell’indipendenza, della libertà.