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Renzi, sotto la schiettezza niente

Creato il 19 giugno 2013 da Albertocapece

164918120-c036c705-4ca6-412c-a7da-766a704f4154Anna Lombroso per il Simplicissimus

Come la fidanzatina d’Italia, come la cucina più amata dagli italiani, il candidato nazionale è ormai Renzi, promosso e sostenuto unanimemente in tutti i contesti mediatici da c’è posta per te a amici a agorà, dove stamattina magnanimamente si è prestato a rispondere alle domande di alcuni di quei tappetini di cocco, messi sul pianerottolo perché resistono a ogni oltraggio del fango e della neve .. o dell’adulazione.

Il vangelo aprocrifo del sindaco di Firenze, come al solito imbottito dei “topoi” dell’ignoranza di ritorno, della più vieta banalità opportunistica, dell’ignoranza dinamica a affaccendata ostentata come un virtù pop, oggi annoverava anche l’ammissione di qualche difetto. Voi direte: ha fatto autocritica per via dell’accertato assenteismo a Palazzo Vecchio, per aver dilapidato soldi pubblici, per non aver impiegato i provvidenziali fondi europei, per aver subito  la fascinazione di quello che dovrebbe costituire un antagonista politico. Macché,  per il Renzi rappresentano peccati, certo veniali, vizi, certo perdonabili, la scarsa diplomazia, quel suo parlare schietto, quella sua indole alla schiettezza, che, a suo dire, gli avrebbero procurato critiche e perdita di consenso.

Non so a voi, ma  ”Sono amico di Platone, ma più ancora amo la verità”, non mi pare un motto che si adatti ad alcun esponente del ceto politico contemporaneo: preferendo   alleanza   tra affini, famigli, fidelizzati, annessi ed ammessi, prediligendo quel genere di patti opachi, universalmente indicati come inciuci, scegliendo piuttosto che il bene comune, interessi personali e la conservazione di privilegi che rappresentano il collante di cerchie amicali.

E comunque la verità, qualsiasi cosa significhi, non è un brand della politica, non rende, non è profittevole e in questa veste non viene richiesta. Come dimostra l’accondiscendenza al sistema di governo  costituito da  annunci cui non seguono le azioni, dal dire cui non segue il Fare, se non per decreto e per difetto,   di proclami cui non seguono atti, salvo dei misfatti, né autocritica. E d’altra parte non la esigono nemmeno quelli che dovrebbero invece per incarico, mansione, missione: magistrati, avvocati, esattori delle imposte, giornalisti che preferiscono attenersi scrupolosamente ad un copione, a una sceneggiatura concordata, come hanno ammesso candidamente quelli che più di altri hanno rivendicato il diritto all’informazione, dimentichi invece del dovere di informare. E  difatti non succede mai che in uno di questi talkshow più prevedibili del festival o di miss italia un commentatore/intervistatore faccia una domanda vera, favorisca l’esercizio della critica, promuova una costruttiva opposizione, raccolga gli elementi per permettere un giudizio, come stupirsi poi se Renzi risponde come la più bella che vuole la pace nel mondo, o, come Fonzie, la paghetta per tutti.

Si alla verità si preferisce la realtà, o meglio una sua visione  variamente addomesticata, utilmente manomessa, profittevolmente impiegata in omaggio all’egemonia di quel pragmatismo esercitato per tagliare con il welfare, anche le speranze, le aspettative e  i diritti, compreso quello all’utopia. E sostituendo alla ragione la ragionevolezza, alla luce dei lumi, la penombra dell’accondiscendenza alla necessità, alla delega e alla dimissione dalla responsabilità

Dopo l’avvicendarsi di tante civiltà fondate “in religione”, teocratiche, ierocratiche, tradizionali, le moderne democrazie rivendicano di essere fondate “in ragione”, proprie di un’età adulta dell’umanità. Ma che civiltà di ragione può essere quella che delegittima  l’aspirazione all’uguaglianza, che scardina l’equilibrio dei poteri, che riduce la circolazione dell’informazione, che abbatte l’edificio dei diritti?

Tutto congiura nella direzione di un pensiero “pratico”, di uno scetticismo etico, che investe il piano morale, ridotto a moralismo, quello politico, ridotto a puro esercizio del potere, e quello giuridico, con le leggi ad personam, il decretare che sostituisce il parlamentarismo e limita il processo decisionale e la rappresentanza. Rischiamo che con tante ragionevoli e realistiche licenze, l’unica libertà che ci resta è l’ubbidienza, l’unica autonomia, l’indifferenza.

 


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