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Renzo Arbore: 50 anni di nulla – C’era una volta la tv 26

Creato il 20 dicembre 2015 da Marvigar4

arbore

Perché Lorenzo Giovanni Arbore, nato a Foggia il 24 giugno 1937, è così tanto osannato e celebrato? Semplice! Perché personifica perfettamente la mediocrità che ha avuto successo usando le conoscenze giuste, gli appoggi politici convenienti, la scaltrezza nello scegliersi amici e collaboratori capaci di far sembrare eccezionale la banalità. È l’italiano medio che l’ha messa nel chiccherone a tutti, pur non sapendo fare niente, o quasi. Arbore vive da sempre di luce riflessa, però dà continuamente l’impressione di essere lui il vero protagonista. Musicista di una pochezza esemplare, cantante poco più sonoro di un afasico, a malapena intonato, talmente presuntuoso da non aver avuto nemmeno l’uzzolo di farsi curare la erre uvulare (Johnny Dorelli ce l’aveva, ma era un artista di talento e soprattutto così umile intellettualmente da dedicarsi ad esercizi di dizione che ne hanno corretto il difetto), programmatore musicale radiofonico di discreto livello, buon conoscitore del panorama melodico, però niente di più. Le sue trasmissioni? Un buon minestrone in cui il suddetto, da buon narcisista cronico, si è assunto il ruolo di ingrediente principale, sfruttando una dose ragguardevole di scostumatezza. Giorgio Bracardi ha ragione da vendere quando accusa Arbore, e anche l’altro vanitoso Gianni Boncompagni, di voler far credere a tutti, in pessima fede, che Alto Gradimento sia una creatura tutta sua e del compagno aretino. Il genio era Bracardi, come pure Mario Marenco, i soli creativi in quel programma, eppure Bracardi e Marenco sembrano non dover nemmeno esistere di fronte a questi consules bonariamente tirannici. Anche il resto delle presunte creazioni arboriane sono un coacervo di improvvisazioni che hanno avuto la fortuna di andare in porto per la presenza di personaggi, scelti bene senza dubbio, che riempivano a ogni piè sospinto i buchi, le voragini di questo foggiano profittatore delle originalità altrui. Pochi si sono chiesti come mai, a parte qualche eccezione, molti “talenti” scoperti da Arbore si siano persi per strada o non abbiano mai avuto quell’autonomia che necessitava per farli emergere definitivamente. Il sospetto è che questi non fossero dei veri talenti, solamente pedine funzionali per la scacchiera messa su dal pugliese che “vuò fa’ l’americano-napulitano” (non potendo essere americano, ha fatto il napoletano, ma un napoletano stereotipato, da macchietta, rimasto fermo ai luoghi comuni degli anni ’50). Non sorprende che Arbore abbia goduto di alti favori anche nel mondo dei noiosi intellettuali italiani, perlopiù comici abortiti, disposti al desiderio inconfessabile di essere come quel pazzariello con la erre moscia. Aldo Grasso, per esempio, è il tifoso par excellence del foggiano perché ha individuato in questo splendido niente un suo sogno represso (basta vedere il critico televisivo in faccia e ascoltarlo mentre parla per capire che al massimo avrebbe potuto ambire a un ruolo di comprimario in scena, magari di maggiordomo che avverte il padrone con la classica battuta “il caffè è servito!”).

Insomma, 50 anni di un nulla impacchettato bene, il medesimo nulla che ci è stato ammannito per due generazioni illudendoci che dietro la maschera ci fosse qualcosa (persino la Vulpis et persona tragica di Fedro se ne sarebbe accorta subito). Arbore è stata un’attesa durata mezzo secolo, l’attesa di qualcosa che non è mai comparso, come il Godot beckettiano. A vedere e rivedere Speciale per voi, L’Altra domenica, Quelli della notte, Telepatria International, Indietro tutta! etc. ci si accorge che sono state delle solenni sòle ben camuffate da parere capolavori televisivi. Riconsiderate quei programmi adesso e, riflettendo bene, vi accorgerete di essere stati presi tutti per il culo dal 1965 fino ad oggi. Il contenitore arboriano è completamente giocato sullo scherzo, sui lazzi, i frizzi, le battute riciclate del vecchio avanspettacolo, sul birignao, sulla burla, sulla parodia della televisione (o meglio sulla parodia di sé spacciata per gioco ironico e pungente critica dei costumi). Ah, non scordiamoci che gli spettatori selezionati in questi programmi ridevano a comando anche e soprattutto quando non c’era niente da ridere, influenzando con questa posticcia ilarità il pubblico a casa, un po’ come succede con lo sbadiglio contagioso.

E non dimentichiamoci delle uniche due esperienze cinematografiche da regista di Arbore, ossia Il pap’occhio (1980) e “FF.SS.” – Cioè: “…che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?” (1983). Il pap’occhio è stata un’allegra rimpatriata dei protagonisti de L’Altra domenica, tutto sommato ben almanaccata e con implicazioni giudiziarie (fu sequestrato per vilipendio alla Religione Cattolica e alla persona di S.S. il Papa); “FF.SS.” – Cioè: “…che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?” riuscì nell’intento di far incazzare Federico Fellini (che veniva sbeffeggiato e scopiazzato) e convincere, finalmente, il nostro foggiano a lasciar perdere con la macchina da presa e tornare al piccolo schermo.

Dagli anni ’90 in poi Arbore non ha più fatto molta televisione, ha scelto di fare il direttore di banda, pardon, della Orchestra italiana (Gesù mio, se quell’orchestra ci rappresenta allora siamo messi proprio male…), ed è così che ha dimostrato di non averla mai fatta sul serio, la televisione. Lo hanno superato, surclassato, la mediocrità durata solo una generazione s’è rivelata inadeguata ai tempi moderni, perché Arbore, in fondo, nasce e muore con l’era della plastica, il materiale di cui è composto e che colleziona da anni, un’era ormai finita, quantunque, ahimè, non biodegradabile.


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