Un giorno ho vomitato la notte / perché il nome del sole era l’oppio dei miseri
Pape Faye
Si dice che quando si compie un viaggio nel vecchio continente si torni più ricchi, carichi di un bagaglio molto più solido di quando si era partiti, un bagaglio prezioso e consistente. Si ha una luce diversa sul viso e, dentro, un calore e un’energia mai posseduti prima. I presupposti con cui solitamente un “occidentale” viaggia in Africa sono simili tra loro e tutti orientati al prendere: arricchirsi di qualcosa, materiale o immateriale. Che sia sfruttamento o volontariato, il motivo principale è sempre un tentativo di aggiungere qualcosa alla propria vita. Ci si va per imparare la condivisione, per sperimentare la pace della natura, per apprendere una nuova lingua o semplicemente per provare a cavarsela da soli.
Eppure il dono più bello che l’Africa possa fare è togliere. L’Africa aiuta a liberarsi di strati inutili di pelle, a lavare via la patina superflua di polvere che copre la nostra identità. La luce e il calore sul viso non sono doni ma averi riscoperti, rispolverati, emersi. È un luogo denso di una magia ancestrale che permette di lasciare i semi sterili del nostro progresso, di abbandonare le false vesti delle nostre strutture sociali, allenta la cinghia della rigidità, scioglie il nodo dell’apparenza. L’Africa nera fa disimparare preconcetti e pregiudizi, premure, pretese. Lava.
Il Senegal è il Paese della Teranga. Simboleggiata dal leone, è la caratteristica principale di questo popolo straordinario: un’intraducibile mix di accoglienza e ospitalità, forza e coraggio, orgoglio, dignità. È il Paese del Baobab, immenso albero dalle radici forti e possenti che prendono nutrimento dalle profondità più calde della Terra. In questo luogo dalla fisionomia ancora originaria e dai significati sempre profondi e concatenati, ogni cosa è una metafora. I suoni alti e melodici, i movimenti lenti e costanti, i colori sgargianti e freschi. E prima ancora di essersene resi conto, si viene immersi in un’atmosfera densa di meraviglioso caos e contraddizione creativa, dove la potenza della modernità e della tecnologia convive accanto a danze tribali e usanze millenarie, gesti ripetitivi e sguardi ancestrali. Un mix di vecchio e nuovo che non lascia spazio a etichette e che crea spietate combinazioni e accozzaglie di culture che in altri luoghi resterebbero confinate nella fantasia.
Le sei etnie principali, con le loro sei lingue riconosciute dal governo, abitano in una superficie di 200 mila chilometri quadrati. Non esistono guerre etniche o problemi legati alle sfumature della pelle come in altre zone del continente, perché il forte legame di fratellanza del popolo senegalese supera ogni ostacolo e gli sconosciuti sono rispettati e accolti come dei piccoli dèi sia in casa che nella propria comunità di quartiere. L’etnia Wolof, dalla quale gli europei attinsero per tre secoli – dalla metà del Cinquecento fino alla metà dell’Ottocento – comprando gli schiavi da spedire verso le Americhe, è oggi la più diffusa e l’omonimo dialetto è parlato in pressoché tutto il territorio. Ha un suono unico e inconfondibile, fatto di salti e schiocchi, di note dolci e pause brevi.
Quello che più sorprende della lingua Wolof e che rappresenta maggiormente il carattere di questo popolo è la frequenza con cui si dice “sì”. Il waaw – pronunciato “uao” - è la colonna portante di ogni discorso: quella senegalese è la cultura dell’apertura, della conferma, della pace e dell’armonia, tanto che il sì diventa intercalare e conferma, punteggiatura e contesto, come in un’amichevole partita di ping pong in cui la pallina è disponibilità alla condivisione di cose e di idee. Non sempre si aspetta che si venga interrogati per rispondere in maniera affermativa, perché un sì è come un posto in casa propria: sempre pronto per gli altri. È difficile, al contrario, sentire il déedéet, la negazione, in una discussione. La Teranga senegalese, che è al tempo stesso accoglienza e attenzione, rispetto e gentilezza, permea ogni spazio vitale, ogni spirito e ogni bocca...
fotografie e testo di Valeria Gentile
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