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Venite / soprattutto non chiudete gli occhi / venite a vedere
Diallo Faleme
Nonostante il Senegal sia un Paese povero, la sua situazione è nettamente migliore rispetto ai paesi vicini: la cultura del lavoro e la maggiore stabilità politica fanno sì che anche la sua economia sia più sviluppata. Si vive soprattutto di pesca, di coltura di arachidi, cotone e zucchero, oltre che dell’allevamento di bovini, caprini e ovini. I mercati di Dakar sono interminabili e assorbono ogni cosa: colorati ed eccessivi, sembrano ovunque e senza fine all’orizzonte. Mercati in distese di terra al sole, mercati su strade trafficate e viali alberati, mercati dietro l’angolo e oltre porte anguste, mercati dentro le baraccopoli, mercati addosso alla gente.
Qui, dove l’assurdo regna sovrano in una quotidianità sempre identica, niente ha un prezzo univoco: un passaggio, un pasto o un abito sono lo spunto per una lunghissima trattativa tra chi vende e chi compra. Qualsiasi cosa è contrattabile perché il prezzo non lo fa il valore del bene, ma la possibilità di chi ne ha bisogno e la disponibilità di chi lo possiede.
Bidonville di frutta e materassini, collane colorate e pesce essiccato, uova, biancheria intima, ciotole, patate, profumi, biscotti…
Dakar è una centrifuga di tinte forti e passi lenti, un mosaico fatto con i rumori e i movimenti sempre costanti di cantieri eterni che montano e smontano ogni giorno la fisionomia della città. I centri abitati pullulano e crescono senza criterio, senza un piano o un ordine, ogni angolo è stracolmo di ruspe, pale, mattoni e piccole montagne di sabbia che attendono solo di entrare nel folle meccanismo dell’edilizia senegalese.
A parte i residui coloniali, l’architettura è così sregolata e intricata da far venire il capogiro, con pezzi di geometrie impensabili e lavori di ampliamento sempre incompleti. Tetti a metà e crepe nei muri fanno il resto, in una scenografia decadente in cui ogni singolo centimetro quadrato risale ad almeno un secolo fa e non è mai stato modificato né ristrutturato. A ogni angolo c’è un cimelio che ricorda vagamente il biliardino e uno sciame di bambini che ci giocano sopra, scalzi e vocianti. Per le vie e nei cortili, indisturbate, vivono delle pecore altissime mentre i calessi, rallentati dalla loro stessa frenesia, sono portati da cavalli molto piccoli.
Un altro elemento che fa l’economia senegalese è la bellezza delle donne: la loro cura del corpo è un’ossessione che va ben oltre il semplice concetto dell’apparenza. Per loro ogni gioiello è un messaggio, ogni ciocca di capelli una garanzia, in un dialogo di corpi che esprimono tutta la loro femminilità e il loro valore. È un percorso importante e impegnativo che ogni bambina inizia molto presto, indossando abiti colorati, orecchini e bin bin, collane di perline da mettere intorno alla vita.
Le trecce hanno molta importanza e a seconda di come vengono fatte e della complessità del loro “tessuto” possono dire molto sulla condizione sociale ed economica di chi le porta. Il lato più triste di questa perenne corsa verso la bellezza è la concezione che la pelle bianca sia più bella di quella nera. Questo porta in alcuni casi le ragazze a utilizzare dei prodotti farmaceutici sbiancanti, estremamente tossici, che rendono la pelle fragile e possono causare forme di cancro epidermico; nel peggiore dei casi, cioè quando non hanno i soldi per comprare questi prodotti, le ragazze ricorrono a candeggina o soda caustica.
Non tanto diverse dalle nostre docce solari e i nostri prodotti abbronzanti, che predispongono ai tumori cutanei, hanno controindicazioni a livello cardiaco e circolatorio e possono causare gravi danni agli occhi. Da una parte all’altra del mondo, non siamo mai contente. “Soffrire per imbellire”…
fotografie e testo di Valeria Gentile
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