Magazine Società

Reportage Senegal #5: Goree, l’isola sul bordo del mondo

Creato il 04 maggio 2010 da Kindlerya

Leggi prima
  • Reportage Senegal #1: le mille bocche della Teranga
  • Reportage Senegal #2: la speranza più di ogni cosa
  • Reportage Senegal #3: nessun prezzo nei mercati di Dakar
  • Reportage Senegal #4: quanto costa la rinascita africana

Eppure, faceva freddo quella notte / quella notte faceva freddo vecchio mio /
quella notte faceva freddo, in nome di Dio
Diallo Faleme
L’isola di Gorée è un puntino nel mondo, grande appena 36 ettari. Si trova a 3 km a largo di Dakar ed è raggiungibile con appena venti minuti di traghetto, svoltato il lungo molo che racchiude il porto della capitale. Venti minuti intensi quanto un’eternità: respirando l’aria salmastra e spingendo lo sguardo in direzione dell’oceano si ha la sensazione di poter essere inghiottiti da un momento all’altro nell’infinità dell’universo. Poi, come per incanto, dalla leggera foschia del mattino presto appare lei, antichissima e dignitosa. Lunga 300 metri e larga un chilometro, Gorée è un tuffo nel periodo coloniale: non ha spiagge ma grandi caseggiati coloratissimi a picco sul mare, tra muri di pietra lavica, buganvillee fucsia e gialle, portoni pittoreschi e chioschetti di chincaglierie e panini.
L’ambiente è più salubre e ordinato rispetto al resto del Senegal, grazie agli abitanti – circa duemila in tutto – che rastrellano la sabbia in ogni piccolo viottolo. Anche il clima è meno pesante che nel resto del Paese, perché il mare mitiga e abbassa vertiginosamente le temperature equatoriali. Il giardiniere dell’isola, un uomo allegro e simpatico sulla cinquantina, passa le giornate da una parte all’altra dell’isoletta, piantando e curando le sue creature di qua e di là, salutando chiunque gli capiti sul cammino e godendosi il panorama. Gli altri sono pescatori, commercianti o artisti: tra pittori, scultori e musicisti, l’isola è tempestata di tele dipinte con i colori più accesi che si possano immaginare, statue tradizionali in legno o futuristiche - realizzate con materiali di scarto e rifiuti – e una miriade di strumenti musicali: djembé, korà, n'goni, ecc. I bambini, come ovunque nel Senegal, fanno la parte dei protagonisti: vivaci, colorati e tantissimi, vivono giornate genuine nella loro ripetitività, tra sorrisi e giochi semplici, merende e balli vorticosi, dividendo i loro spazi con agnelli bianchissimi, pecore enormi, gatti indiscreti, lucertole dalle dimensioni improbabili e galli in libertà.
Reportage Senegal #5: Goree, l’isola sul bordo del mondo
Eppure questo paradiso terrestre ha un passato per niente glorioso, un luogo che in Europa trova somiglianza solo ad Auschwitz: l’isola di Gorée, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO dal 1978, è stata per secoli uno degli avamposti della tratta degli schiavi. Gli uomini più forti, le donne più belle e i bambini più sani venivano portati qui da tutto il Senegal e stipati insieme nella "Maison des Esclaves", la casa degli schiavi con stanze che erano vere e proprie gabbie di pietra, sigillate da spesse inferriate, con piccolissime porte e spesso senza finestre. Le si può guardare ancora oggi perché la Maison des Esclaves, che risale al Settecento, è diventato un museo nel 1962 raccogliendo, nel suo piccolo spazio, il peso di un luogo simbolo di questa tragedia secolare ed accogliendo circa 500 visitatori al giorno. I curatori del museo affermano che tra i 15 e i 20 milioni di africani sono passati da qui prima di essere separati per sempre dalla loro terra e dalle loro famiglie, per diventare degli enti senza nome e senza dignità e gettare le basi di quella che oggi si chiama “multiculturalità americana”.
Reportage Senegal #5: Goree, l’isola sul bordo del mondoAl piano di sopra si possono osservare gli ottocenteschi dipinti francesi che raffigurano la tratta in modo lucido e impietoso, nonché i cimeli della schiavitù: catene, fucili, fruste. A passare tra i corridoi e nelle gabbie occorre incurvare la schiena e la coscienza. Il peso che si sente è quello dell’aria e dei ricordi, di cui le pareti delle gabbie sono impregnate: ce n’erano due per gli uomini, due per i “recalcitranti”, una per le donne, una per i bambini. E poi il piccolo cortile centrale, dove venivano fatte le trattative: gli europei davano un prezzo ad ogni schiavo a seconda dei muscoli per gli uomini, dei seni per le donne, dei denti per i bambini. I velieri aspettavano pazienti sul retro, per un lungo viaggio verso le Americhe: la “porta del non ritorno”, minuscola nella sua enormità simbolica che affaccia direttamente sul mare in direzione di Dakar, non risparmiava chi era sopravvissuto ai maltrattamenti e alle privazioni. Su questi velieri gli schiavi erano stipati come sardine e non potevano muoversi né sdraiarsi, e spesso dovevano stare curvi perché troppo alti rispetto alla struttura delle imbarcazioni. Le frustate non solo erano permesse dai governi europei, ma anche istituzionalizzate da una legge che ne regolava il numero massimo per persona: numero che non variava per nessuno, nemmeno per le donne incinte.
Reportage Senegal #5: Goree, l’isola sul bordo del mondo
Non tutti arrivavano alla fine della traversata, che durava da uno a sei mesi, sia per via delle violenze fisiche e psicologiche, sia per le ribellioni di massa represse nel sangue. Non erano rari i casi di suicidio di schiavi e schiave che si gettavano insieme in mare, preferendo la morte alla schiavitù.
La tratta degli schiavi dall’Africa all’America è forse il capitolo più triste della storia dell’uomo. I colonialisti europei, per primi portoghesi e spagnoli, poi inglesi, olandesi e francesi, si resero presto conto che né gli indiani nordamericani né gli indios sudamericani potevano resistere fisicamente ai lavori forzati, sia per i loro corpi esili sia per le nuove malattie che gli stessi europei avevano portato nel Nuovo Mondo.
Camminando tra le strade del Senegal risulta evidente il motivo di questa condanna. La condanna di un popolo così straordinario e così tormentato insieme, la condanna a pagarne per molto tempo ancora le conseguenze sociali, ambientali, politiche ed economiche. Guardando questi uomini e queste donne nei loro visi, nei loro corpi e nei loro spiriti, viene da chiedersi se la perfezione sia una colpa. Se questa bellezza così sana, questa forza così assoluta, siano indice di un peccato incancellabile. Se questa pelle così lucida e resistente abbia incisa la macchia della sua completezza. Se queste braccia così buone e impeccabili portino il peso della loro eccellenza, se questi ventri così dolci e armoniosi conservino al loro interno il feto del torto.
Reportage Senegal #5: Goree, l’isola sul bordo del mondo
Gorée racchiude tutto questo, dopo secoli e secoli di inferno.
Ovunque, intorno, il mare. E in lontananza, tra le piroghe dei pescherecci e i voli bassi delle aquile, due mondi che si sfiorano: da una parte Dakar, con il suo fermento africano di suoni e di genti; dall’altra, l’Oceano Atlantico, aperto e quasi infinito, portatore di ogni bene e di ogni male.
fotografie e testo di Valeria Gentile
Leggi anche
  • Reportage Senegal #6: una voce che arriva dall'infinito
  • Reportage Senegal #7: i semi di una nuova civiltà
  • Reportage Senegal #8: mio fratello, il nuovo tubab
  • Reportage Senegal #9: tre notti folli di korà e sabar

[senegal]

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :