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Allora! A quale civiltà volete che io appartenga? A quale razza, io negro di fuoco?
Pape Faye
Che in Senegal l’Islam sia moderato lo si sente respirando l’atmosfera di tolleranza che lo pervade. Fino all’Ottocento la maggior parte del Paese rimase animista e ancora sopravvivono feticci e riti risalenti ai tempi antichi in ogni fascia della popolazione. Qui non regna la Sharia – la legge islamica – e non è raro incontrare credenti non praticanti e laici. Le donne non portano il velo e se molte – soprattutto anziane - legano attorno alla testa dei fazzoletti colorati abbinati al vestito è più per questioni legate all’eleganza e al sole che batte a picco, piuttosto che per questioni di culto.
I richiami alla preghiera scandiscono le ore del giorno e della notte con surreale imponenza. Sono richiami fatti a voce, a metà tra canti liturgici e lamenti strazianti, che provengono da diverse parti della città o del paese ma che incontrandosi all’unisono creano un’unica cantilena che sembra provenire direttamente dalla dimensione divina. Il risultato è che cinque volte al giorno, contemporaneamente e senza strascichi o differite, la voce dell’Islam riconferma il dialogo con Allah, in modo rudimentale e genuino, brusco e potente.
E questa genuinità, questa straordinaria naturalezza nel parlare con Dio e di Dio, i senegalesi la conservano anche quando si convertono al Cristianesimo: ogni culto convive con gli altri in modo pacifico e armonioso proprio perché il linguaggio, il messaggio e il tono, tutto parte dalla stessa radice umana e tutto procede verso la stessa meta. Il 5% della popolazione in Senegal è cristiana, soprattutto cattolica, e si tratta perlopiù di famiglie che godono di un certo benessere sociale ed economico. Come quelli della chiesa Rehoboth a Dakar, dove il coro gospel fa da scenografia al palco di un prete ultramoderno, a metà tra lo showman e il prestigiatore.
Grida la Bibbia in francese e con tutta la voce che ha in corpo, come se fosse lontanissimo, oltre le finestre e i muri di questa città, oltre i bisogni e i desideri dell’umanità, come se si trovasse nella stanza di un altro mondo, seduto accanto a Dio. Per farsi sentire dai fedeli dall’altro capo del creato, l’omone vestito “all’occidentale”, tutto di bianco e con un papillon sotto la giacca, spiega le note migliori delle sue corde vocali e suda, suda tantissimo, di un sudore denso e benedetto che asciuga con un fazzoletto a ogni pausa dalla lettura. Nove ventilatori sono in funzione, tutti puntati su di lui, il mastodontico portavoce di Gesù.
“Ci sono persone che non vengono in chiesa perché sono a letto malate o perché sono talmente povere da non avere un vestito. Ci sono persone che si amano e non possono sposarsi per mancanza di risorse. Bisogna conoscere queste realtà e fare delle collette, in modo che la chiesa possa aiutare i bisognosi con l’elemosina. La chiesa è una famiglia che va al di là della famiglia biologica e che predica l’aiuto ai meno fortunati: una chiesa che non pratica la parola di Dio, che non fa la carità, è una chiesa morta!”
Una ragazza minuta si separa dal coro e con un microfono incalza la lettura del prete con la traduzione in wolof per chi non ha studiato. Inizialmente lui le lascia qualche secondo tra una frase e l’altra, ma a mano a mano che va avanti nella predica si fa prendere dalla foga e allora lei, alzando il tono della voce perché non venga soffocata da quella di lui, non aspetta più che lui finisca e si sovrappone alle sue grida di esaltazione. “Nella vita c’è chi conosce il benessere e chi conosce il malessere. Se non hai soldi, qui, muori solo! I dottori non lavorano gratis! Ci sono addirittura persone che non hanno mai preso un taxi!”
Chi possiede una versione tascabile del testo sacro legge insieme a loro, chi non ce l’ha ne trascrive, su pezzi di carta, gli insegnamenti dei versetti citati. Tutti gli altri fedeli sono completamente assorbiti dall’omelia, tengono gli occhi chiusi e la testa china, alcuni dondolano un poco in avanti con la schiena, altri sorridono tra sé. Sulla parete c’è una grande scritta che recita la Genesi: L'eternel nous a maintenant mis au large, et nous prosperons dans le pays. “Che Dio vi benedica!” si esalta il prete, “noi non meritiamo niente, tutto ciò che abbiamo è grazie a Dio!”
E così va avanti la messa più rumorosa e carismatica del mondo, il doppio grido francese-wolof diventa un’unica invocazione squillante, e allora lui grida di più, che Dio vi benedica, e allora lei grida ancora di più, Yalla nala Yalla faye, Dio ha donato molto all’Africa, Yalla mayena Afrik lou bari, Che dio vi benedica, Yalla nala Yalla faye…
Questa genuinità, questa straordinaria naturalezza nel parlare con Dio e di Dio, fa sì che al momento dello “scambiatevi un segno di pace” tutti si alzino e si dirigano davvero verso tutti, percorrendo ogni spazio tra le sedie di plastica. In un clima di intimità assoluta, dove a volte i fedeli correggono il prete quando sbaglia – che risponde “ah, grazie” – e altri ridono per le sue battute, alla fine, con una schiettezza disarmante nella voce, annuncia: “ah, devo correre un po’, ché devo finire a mezzogiorno”…
fotografie e testo di Valeria Gentile
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