Questa follia, questa forza vulcanica di arrivare alla vetta degli ideali,
di sradicare i baobab del dolore / appartiene al negro, che io sappia, madre
Pape Faye
Essere bambini in Senegal non è un gioco. Certo, ogni bambino è il bambino di tutti, c’è molta solidarietà e attenzione quando si tratta di loro; sono considerati come dei piccoli dèi ed è per loro molto naturale uscire di casa e scorrazzare da una parte all’altra della propria città o villaggio senza che i genitori debbano preoccuparsi per la loro sicurezza. L’educazione senegalese è molto importante nella vita di una famiglia, che in media è composta da una quindicina di persone, ed è incentrata sul rispetto, sulla condivisione e sull’esempio dei grandi, severi nei principi e nello stesso tempo molto affettuosi.
Ma in un Paese come questo ogni singolo bene, primario o secondario che sia, è razionato e i bambini sono educati sin da piccoli a tenere per sé solo le briciole di quello che viene loro offerto, dividendolo con gli altri numerosissimi bambini della casa. Si gioca poco, e anche quando lo si fa c’è sempre più apprendimento che svago, più rito che passatempo. Passano ore in posizioni bizzarre a fissare il mondo o a riflettere su qualche pensiero intraducibile a parole, con gli occhi persi nel vuoto. Ed è raro vederli alle prese con dei giocattoli veri e propri, mentre i giochi più frequenti sono quelli tradizionali: nascondino, biglie, pallone.
Al di fuori dei cortili delle scuole o delle case, di solito i bambini giocano separatamente dalle bambine. Sin da piccoli infatti, i senegalesi forgiano le proprie vite a seconda dei percorsi esistenziali che li attendono: ed ecco che ogni bambina da un momento all’altro può sorprendere tutti con le splendide movenze della danza tradizionale, e ogni bambino può lasciare tutti a bocca aperta praticando, ovunque si trovi, lo sport nazionale.
In Senegal la lotta è molto più che uno sport o una disciplina agonistica. È qualcosa che si incontra a metà strada tra la competizione, il rito e lo spettacolo. Nel suo paese d’origine viene vissuta alla pari di un rito sacro e seguita più di ogni altro sport, come un evento straordinario praticato da giovani lottatori con presunti poteri mistici. Si tratta di una lotta libera a mani nude che si svolge all’interno di un cerchio molto ampio disegnato sulla sabbia; molto ritualizzata e con sfumature che solo i più esperti sanno cogliere, la stagione dei combattimenti inizia a ottobre e finisce a maggio. Gli incontri durano tre tempi da quindici minuti, intervallati da pause di cinque minuti: vince chi riesce a portare la testa, la schiena o i glutei dell’avversario a terra.
Essere bambini in Senegal significa doversi sempre conquistare qualcosa, che sia un pezzo di spazio fisico dentro al quale stare, un pezzo di cibo con cui attutire la fame, un pezzo di futuro verso cui incamminarsi. Mané, Yaffi, Ndiawar, Ndéye, Mouhamed, Yaye Mbaye e Badou hanno tra i quattro e i dodici anni e abitano nella stessa grande casa insieme a genitori, altri cugini più grandi, zii e nonni. Non ci sono orari precisi per i pasti, che si fanno quando si ha fame o quando c’è da mangiare: questo rende le cose ancora più complicate perché si rischia di avere fame troppo presto o di arrivare troppo tardi, quando gli altri hanno già terminato quasi tutto.
Si mangia tutti insieme da un piatto ampio e profondo, seduti per terra formando un cerchio intorno ad esso, ma senza rigore né posizioni prestabilite. Nessun concetto somiglia vagamente allo “stare composti”, il galateo è lontano anni luce, lavarsi le mani è inaudito e se qualcosa cade sul pavimento, che dista al massimo tre centimetri dal bordo del piatto, non si butta via. Il piatto tipico è il ceebu jep, un riso dai chicchi piccolissimi e croccanti, con verdure e pesce bolliti insieme e conditi con una salsa piccante. Ognuno, dalla propria porzione immaginaria nella parte di piatto di fronte a sé, si riempie la mano destra: comincia a schiacciare e modellare l’impasto come se volesse farne una polpetta, in modo da prendere la massima quantità di riso a ogni boccone. Poi tira fuori la lingua e con un movimento repentino poggia l’impasto più in fondo possibile, richiudendo la lingua sopra di esso.
Di solito, durante il pasto tutti stanno in silenzio. Non si usa molto parlare, né per commentare le pietanze né per discutere su qualche argomento di interesse generale. E a differenza di qualsiasi altra attività africana, si mangia a un ritmo frenetico: insieme alla danza tradizionale femminile, il pasto si svolge con movimenti rapidi e decisi, con un’energia che sorprende.
Nell’atrio coperto del cortile, dove di solito si mangia perché non batte il sole, arriva ogni tanto un soffio di vento che stempera la calura del primo pomeriggio. Le mattonelle hanno tutti i colori dell’arcobaleno e formano dei mosaici mozzafiato, oltre a restare all’ombra e fresche per chi vi si siede.
Scuola coranica a Saint-Louis
Anta ha otto anni e torna tardi dalla scuola coranica dietro casa, quando gli altri hanno già finito di mangiare. Eppure arriva contenta e ripulisce il piatto assumendo le posizioni più disparate, usando uno sgabello come poggia-pancia o a sostegno del braccio che non usa per mangiare. Adora quando sua madre Daba mette anche i pomodori nel ceebu jep e più i bocconi che inghiotte sono gustosi, più si contorce accanto al piattone.
Sua sorella maggiore Ndeye la aiuta a non sporcare troppo, semplicemente raccogliendo da terra ciò che cade e infilandoselo in bocca.
Qualche metro più in là, dove i raggi di un sole generoso battono sul terrazzo, i panni stesi hanno tinte forti e fantasie meravigliose. Con le mani ancora rosse di salsa piccante, Anta e Ndeye si ritirano all’ombra fresca del salotto per discutere, con un’armonia disarmante, delle cose del mondo.
fotografie e testo di Valeria Gentile
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