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Resistenza tra i ghiacci

Creato il 18 maggio 2022 da Annalife @Annalisa
Resistenza ghiacciLa prua della Endurance, con il suo timone perfettamente conservato

Qualche tempo fa, cogliendo un suggerimento vagante per l’aere digitale, ho cominciato a leggere un libro di Stefan Zweig, pubblicato dalla BUR, e incentrato sulla figura di Magellano. Nell’introduzione, Zweig paragona un suo viaggio su un comodo bastimento dotato di tutti i confort, ma, a un certo punto, anche noioso e monotono, con i viaggi di un tempo, con le prime spedizioni di temerari imbarcati su minuscoli velieri, perduti nell’infinità oceanica, esposti a pericoli, bufere, disagio, costretti a una dieta di gallette secche e lardo rancido, caldo gelo, e a casa nessuno che sapesse dove fossero. Dice Zweig che si è vergognato così tanto della sua comoda impazienza da non potersi più liberare dal pensiero di “quegli anonimi eroi”, di essere andato a cercarne notizie in biblioteca e di aver poi fermato la sua attenzione su Magellano.

Così nasce il suo libro.

Ma non è questo che ora importa: importa che, negli stessi giorni in cui mettevo mano alle prime pagine di Magellano, mi sono arrivati a casa altri libri: il primo, dell’amato Mino Milani, è Il segreto del Magenta, dedicato “alla passione marinara di Ugo Mursia”; il secondo, anzi il secondo e il terzo, sono la coppia di volumi che compone il romanzo a fumetti La Belgica, di Toni Bruno; il quarto, infine, è questo, Endurance.

Così, coincidenza o fato, mi sono trovata tra le mani un quartetto di racconti dedicati, appunto, alla passione marinara, declinata nel 1550, nel 1866, nel 1897, nel 1915.

L’ultimo letto è anche l’ultimo come ambientazione temporale: siamo alla vigilia della prima guerra mondiale, e lo scopo è l’arrivo nel continente antartico e il suo attraversamento da est a ovest. Il libro, pubblicato nel 1959, non è l’unico sul tema, visto che anche alcuni membri dell’equipaggio (Hurley, Hussey, Richards, Worsley, lo stesso Shakleton) hanno scritto della loro avventura.

Dopo essere partiti dalla Georgia del Sud i primi di dicembre del 1914, le cose non vanno proprio come ci si aspettava: gradatamente le condizioni peggiorano, e la situazione degli uomini dell’equipaggio (una trentina) è sempre più precaria e minuziosamente descritta.

Spiccano, nel racconto, almeno due cose: la prima, il senso di responsabilità che grava e preme costantemente su Ernest Shackleton, uomo di poche parole, che l’autore presenta un po’ miticamente come irreprensibile comandante, leader assoluto del gruppo, capace di leggere non solo il tempo e la situazione, ma anche il carattere e le diverse temperie dei suoi uomini (belle le pagine in cui distribuisce il lavoro dell’equipaggio, o le persone all’interno delle tende dell’accampamento, proprio a seconda di come reagirebbero di fronte e certe situazioni, e di come si combinerebbero i diversi caratteri); la seconda cosa che colpisce è il tono misurato, piano, mai drammatico, che l’autore usa nel riportare, quasi giorno per giorno, le difficoltà, le speranze, la disperazione, i tentativi, le durissime prove che li uomini dell’endurance incontrano.

Il dramma, che pure c’è, e potente, è già tutto nella cronaca quasi giornalistica, antiretorica, degli avvenimenti. Qualcuno potrebbe dire che lo stile è troppo freddo, poco partecipe; in realtà, proprio la mancanza di aggettivi roboanti e di sottolineature teatrali permettono di sperimentare con più vicinanza il dramma che si consuma nei mesi ghiacciati dell’impresa: è sufficiente che l’autore, con pazienza, declini via via lo scorrere delle giornate, illuminando il resoconto con brani tratti dai diari di alcuni dei sopravvissuti, e con i commenti tratti dai ricordi di alcuni dei protagonisti che l’autore ha incontrato. In questo modo, mattone dopo mattone (anzi, pezzo di ghiaccio dopo pezzo di ghiaccio) si definisce in modo preciso, spassionato, apparentemente distaccato, una vicenda che inizialmente procede lenta, ma poi acquista un po’ i contorni del romanzo di avventura, e infine ti costringe a seguire le peripezie di questi uomini fino in fondo, a conoscerli a uno a uno con le loro idiosincrasie, i difetti, i pregi (che il capitano Shakleton, ripeto, coglie con straordinario acume), a chiederti se ce la faranno, se riusciranno a portare con sé i cani e i chili di carne di foca necessari per sopravvivere, se prenderanno le decisioni giuste, se si ribelleranno (peraltro vanamente) alle scelte obbligate verso cui li spinge il leader della spedizione… In una parola, se concluderanno quello che si sono proposti.

Ed è questa, forse, la terza cosa che colpisce mentre si leggono queste pagine: ci si domanda, cioè, che cosa possa aver spinto queste persone a intraprendere l’impresa che, va detto, non ha scopi pratici, non vuole ottenere chissà quali conoscenze, ma vuole semplicemente arrivare prima. Prima di altri, e va ricordato che agli inizi del ‘900 una spedizione americana aveva raggiunto il Polo Nord, mentre qualche anno dopo è Amundsen (norvegese) a raggiungere il Polo Sud. Insomma, è un po’ come se l’Inghilterra si sia sentita superare e voglia riaffermare la sua bravura: non va dimenticato che, pur iniziando la Prima Guerra mondiale, e nonostante gli scrupoli dei principali protagonisti, alla fine il governo inglese preme decisamente perché la spedizione si faccia comunque. E all’avviso messo sui giornali dell’epoca per arruolare l’equipaggio (“Cercasi uomini per viaggio rischioso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti. Onori e riconoscimenti in caso di successo”) rispondono in migliaia. Viene ancora da chiedersi il perché affrontare una situazione disperata, ai limiti della sopportazione umana, da parte di persone tutto sommato ‘normali’. Forse la lettura prosegue anche perché nelle pagine si tenta di conoscere una parte di quello spirito che animò la gara tra potenze in un colonialismo senz’altro meno noto di quello che alla fine pervase la corsa imperialistica destinata a concludersi poi con lo scoppio del primo conflitto mondiale.

Infine: ho parlato più volte di uno stile freddo, forse cronachistico, adatto alla storia; epperò, c’è almeno una pagina che commuove, in un contesto magari un po’ troppo da déja vu (a me è venuto in mente quel “mister Livingstone, I suppose” di gallese memoria) e magari anche un po’ troppo happy end, ma che è quello che ci voleva dopo tutte le catastrofi capitate ed è comunque lì a ricordarci che anche una storia vera e irta di pericoli può avere qualcuno che ti guida dove è meglio.

(curioso che, mentre ci accingevamo a leggere il libro per l’incontro del Circolo di Lettura, sia arrivata la notizia del ritrovamento del relitto della Endurance, dopo un’ultima ricerca costata 10 milioni e finanziata da un donatore anonimo)


Alfred Lansing
Endurance, L’incredibile viaggio di Shakleton al Polo Sud
TEA editore, 2003
pgg 308, euro 12


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