Lo UK e’ come un grande show televisivo.
Tutto e’ spettacolare, d’impatto. Perfetto, organizzato, preciso. Senza ironia. Spesso lo e’ davvero.
Laddove in Italia troviamo case e aziende con la vernice scrostata, nello UK ci sono acciaio, vetro e insegne senza l’ombra di un graffio. Anche quando sono fatiscenti, sono fatiscenti con ordine. Le strade, da noi, sono rappezzate in un patchwork di gradazioni di grigio diverse.
Non si puo’ spiegare a parole, questa differenza che salta agli occhi. Le citta’ inglesi, anche citta’ dai marciapiedi foderati di monnezza come Manchester, allo sguardo esterno danno un’idea di rigore e controllo. In Italia di decadenza, malinconia e tristezza. E forse sta proprio li’ tutto il suo fascino. L’Italia e’ un Paese antico, moderatamente malinconico, vecchio nella sua struttura sociale e politica eppure ancora capace di andare avanti. Nessun distretto inglese, messo nelle condizioni in cui versa il nostro Paese da decenni, sarebbe sopravvissuto a domani. La crisi nello UK viene affrontata in modo diverso. La si nasconde, la si camuffa, spesso. Si distraggono i cittadini con dibattiti alternativi – chi indovina quanti capelli bianchi ha Kate Middleton? – e sondaggi volti ad infognare le multinazionali – perche’ i profitti di Tesco sono precipitati ancora nel Q4 del 2013?
Eppure lo UK, al contrario del nostro Bel Paese, e’ ancora in grado di offrire lavoro. E’ una macchina che sta consumando risorse che non ha, offrendo fondi e sussidi che non ha piu’, ma finche’ resta a galla conviene venir prendendo. Ed e’ proprio questo il problema: finche’ lo UK continua ad offrirci qualcosa che casa nostra non offre, nessuno di noi expat puo’ muoversi da qui. Alla fine, per molti e’ lo stipendio il motivo per cui si resta. Il lavoro non e’ tutto nella vita, ma il rischio che si corre all’abbandonarlo per rientrare in Italia e’ troppo alto. Abituati a vivere con i nostri mezzi, troveremmo umiliante tornare a dividere casa con mamma e papa’. Siamo come i nostri bisnonni e i nostri nonni: compriamo il pane con i soldi stranieri frutto del nostro sudore e lo mangiamo sospirando di nostalgia al ricordo del sapore di casa.
E tuttavia si pensa a casa propria solo quando non si e’ troppo stanchi per prendersi cinque minuti con se stessi. Perche’ questo e’ lo UK e questa e’ Manchester, la sola citta’ in cui sia vissuta davvero a parte la breve, idilliaca e terribile parentesi a Londra.
A Manchester si corre sempre. Ci si fa strada (letteralmente) a spintoni. Perche’ e’ cosi’ che funziona, in questa citta’. E’ uno stile di vita, e’ la legge della giungla che prende vita sui ciottoli di Market Street. E’ parte della cultura locale. Un segno distintivo che non si trova nemmeno negli Scouser. Non si chiede “permesso”, a Manchester. Non si dice “scusa”. Si passa e basta. Se non c’e’ spazio, uno se lo crea coi gomiti. Ogni giorno si corre una corsa verso il nulla, in una frenesia ingiustificata che consuma le energie alle persone. Nella corsa quotidiana si e’ talmente concentrati a compiere il passo successivo senza venire travolti da dimenticarsi qual e’ l’obiettivo che si sta tentando di raggiungere a lungo termine. Non che in questa citta’ si pensi troppo al futuro. Si arranca. Si sopravvive. Ci si dimentica della settimana appena finita chiudendosi in un pub o in un club o in un centro commerciale per tutte le 48 ore del weekend. Il lunedi’ si ricomincia da capo.
Chi non vuole condurre questa vita, chi ha obiettivi concreti come una casa di proprieta’, una famiglia, un po’ di pace di cui godere nell’intermezzo che va dal venerdi’ sera alla domenica, fugge via da Manchester. Persone con un’istruzione, soprattutto, con una visione del mondo completamente diversa da quella dei loro concittadini medi che si rifugiano in Cheshire o nelle zone bene della Greater Manchester. Altrincham, Chester, Sale. Posti in cui puoi far giocare i tuoi figli sul giardino frontale perche’ nessuno, passando, lancera’ loro una bottiglia vuota in testa.
Andate via loro, a Manchester rimangono solo quelli che il Cheshire non se lo possono permettere, ne’ potrebbero neppure se lo volessero. Se nasci operaio, qui, difficilmente muori dirigente e dividere 50 metri quadri in una Council Estate con altre quattro persone diventa un lusso. Tre sterline significano una pinta, non un giornale o un paperback. Guardano con occhio incredulo e sospetto, a volte ammirato, chi alla fermata dell’autobus legge un libro invece di perdere tempo su Facebook. Per molti di loro, aggredire l’autista del bus perche’ si e’ permesso di non aprire immediatamente le porte e’ una cosa assolutamente normale. Tu, con un sospiro stanco, ti siedi al tuo posto e preghi che il tipo, passandoti affianco, nel fervore della sua battaglia contro quello al volante non ti molli una gomitata nell’occhio. E, di colpo, focalizzi che di vivere in questo modo, in mezzo ai trogloditi del Nord, ne hai le palle piene.
Superati i trent’anni capisci di dover essere realista. Ci hai provato ad andartene da Manchester e non ha mai funzionato. La sfiga, il caso, il destino, la vita: chiamali come vuoi. Hanno fatto fallire uno dopo l’altro tutti i tuoi tentativi di andartene. Il che ha significato restare dove sei, in attesa di riprovarci ancora. Ma, ormai, attesa e’ una parola che non vuoi piu’ prendere in considerazione. Attesa di cosa? In che citta’, in che condizioni? Cinque anni. La citta’ da cui hai provato a fuggire neppure sei mesi dopo essertici trasferita e’ diventata la tua residenza fissa dell’ultimo lustro.
E quindi?
Sopporti tutto, all’inizio, specie quando sai che non e’ questo il posto in cui intendi vivere nello UK. Sopporti i perditempo che popolano il centro, sopporti i trasporti che non funzionano mai e che a sera diventano una discarica su ruote, sopporti il trattamento di merda che i locali ti riservano nel 90% dei casi, fingendo di non capirti quando invece sono loro a non parlare l’inglese. Sopporti la carenza di supermercati che offrano alternative commestibili al junk food che fa scoppiare le coronarie e mettere su un culo che non mandi via piu’, neppure facendo dieci anni di step. Sopporti, perche’ stai lavorando per andartene. Poi gli anni passano. La citta’, il lavoro che fai, il clima perennemente grigio (che fa schifo anche a chi a Manchester ci e’ nato e cresciuto) ti fanno entrare in un loop di indolenza e lassismo e alla fine resti li’, ad aspettare di mettere da parte quei soldi che non avrai mai per poter reimpacchettare tutto e ritrasferirti da dove sei partita. Poi, pero’, vedi lo stipendio che, pure derubato di bonus e straordinari, ogni mese arriva. Vedi gente che si e’ licenziata prima di te cercare spigoli contro cui sbattere la testa perche’ lavoro non ce n’e’ piu’. Cosi’ resti dove sei. Non ti licenzi, anche quando il lavoro ti sta succhiando via l’anima – letteralmente, in certi casi.
Arriva il giorno in cui focalizzi che la tua vita nello UK e’ indissolubilmente associata a Manchester. Se anche fosse da qualche altra parte, questa “qualche altra parte” sarebbe comunque nel Paese in cui non hai mai previsto di invecchiare. E il momento del tuo rientro in patria, se ti trasferissi da questa “altra parte”, si allontanerebbe ancora di piu’.
Il giorno in cui focalizzi questo, ti chiedi: che cosa vuoi fare? Vuoi continuare a vivere in un Paese in cui rimani per 5 anni con un dente morto in bocca perche’ i dentisti sono degli incompetenti? Vedere qualche altra patologia diventare cronica perche’ i medici sono macellai? Oppure vivere in una citta’ in cui e’ normale crepare di freddo dentro casa, andare a letto con la borsa dell’acqua calda e due piumoni sopra il letto? In cui non puoi nemmeno pensare di mettere al mondo un figlio, perche’ tutto quello che hai sentito sui pediatri dalle tue colleghe ti ha fatto accapponare la pelle? In cui la sola opzione nel tuo tempo libero e’ chiuderti in un centro commerciale o in un pub, a favorire il declino del fegato? In cui anche una bistecca cucinata a casa diventa un concentrato di ormoni e acqua stantia perche’ la cultura cittadina media preferisce i precotti da 1 pound e la carne di qualita’ non la vuole nessuno?
E’ a quel punto che pensi con nostalgia alla cara, vecchia Italia. La nostra bella Italia, che casca a pezzi quanto i muri di Pompei e i suoi parlamentari. La nostra Italia cosi’ calma, con la sua vita che procede adagio, i suoi bar e le sue piazze e le sue domeniche in centro. L’Italia, dove il fine settimana puoi restare a casa senza dover passare il tempo con le chiappe incollate al convettore, per scaldarti (neppure in Tirolo). L’Italia, dove le case sono isolate, i reumatismi non ti vengono dormendo di notte e i termosifoni sono termosifoni veri e le piastrelle coprono tutta la superficie della cucina, non solo intorno ai mobili. L’Italia, in cui se un vicino di casa scassa la minchia con la musica alle 3 del mattino di un feriale, per farlo smettere tu non devi ricorrere a un ufficio apposito del Comune solo perche’, se andassi a bussargli, ti prenderesti una coltellata. L’Italia, dove la pioggia se cade, cade in verticale, non in orizzontale. L’Italia, dove puoi permetterti una macchina, anche scassata, perche’ ci sono strade che funzionano e non mulattiere che spacciano per statali.
L’Italia, dai suoi ritmi cosi’ diversi, cosi’ pacati, cosi’ addormentati.
La vita movimentata d’Albione, sulle prime, affascina. Successivamente, pero’, sfianca. Non e’ vita movimentata, quella che si conduce qui. E’ frenesia, nella maggior parte dei casi ingiustificata.
Si corre sempre. Si corre per tutto. Si corre la mattina per andare a prendere l’autobus, perche’ i servizi di merda di Manchester fanno si’ che per arrivare alla fermata tu debba prima spararti mezz’ora a piedi. Si corre salendo sul bus, perche’ ce ne e’ uno adesso e il prossimo Dio solo sa quando passera’ e siamo tre milioni su questa maledetta banchina e se non trovo posto poi mi tocca farmi mezz’ora di viaggio in piedi. Si corre per andare a fare la spesa, perche’ se no l’unico supermercato accessibile a noi, poveri sfigati senza macchina, si riempie di orientali in gita nel Meraviglioso Mondo di TescOZ. Si corre alla cassa, dove la commessa ti lancia la roba addosso un proiettile dietro l’altro e dove il cliente successivo e’ gia’ li’, che ti respira sul collo e accumula la sua spesa sopra la tua. Si corre nel weekend, perche’ durante la settimana tra autobus in ritardo e coda alle casse e stanchezza non si e’ riusciti a fare niente e si e’ rimasti senza biancheria, senza cibarie e in casa per muoversi ci vuole un Caterpillar.
Si corre talmente tanto che si perde di vista dove si sta andando esattamente. La vita frenetica d’Albione fa talmente concentrare sul sopravvivere alla giornata che si ha davanti da indurre a dimenticare di ragionare su che cosa si vuole ottenere piu’ in la’ nel tempo.
E cosi’ un bel giorno ti fermi, apri gli occhi e ti chiedi: ma chi te lo fa fare?
Di colpo ti rendi conto che nessuno, intorno a te, sta andando da qualche parte. Ci sono quelli come te, persone che avrebbero avuto tanto da dare e voluto dare tanto, i cui sogni sono stati messi a tacere da una crisi economica senza precedenti, che li ha rinchiusi in callcentre o in aziende di servizi in cui sono rimasti pur di riuscire ad arrivare a fine mese. Ci sono poi gli altri, quelli che vivono alla giornata e a cui non frega di fermarsi a pensare dove stanno andando. Finche’ arrivati al fine settimana restano i soldi per un sabato fuori, sono contenti cosi’. Trentacinque, trentotto, quarant’anni: tutti li’, a fare il pub crawling o il disco crawling, a bruciare i risparmi nello sballo della vita notturna di Manchester. Non pensano a quello che vorrebbero fare “da grandi” perche’ per loro non c’e’ nulla a cui si possa aspirare, “da grandi”, e cancellano l’amarezza di questo pensiero attraverso l’oblio dell’alcool. Mi sono aggregata volentieri anch’io, quando ancora lavoravo all’inferno. Era il modo piu’ semplice di staccare la spina e la sola alternativa a 48 ore chiusa a casa da sola. Insieme, seduti li’ ad elencare tutto quello che non andava dentro e fuori dal posto per cui lavoravamo, finivamo col bruciare il fine settimana rimuginando su cio’ che ci aveva avvelenato il fegato nei passati cinque giorni, svuotando il portafogli al banco del bar, persone spesso senza niente in comune eppure tenute insieme dall’odio verso il Nemico: l’Azienda.
Continuare a vivere in una citta’ come Manchester significherebbe soltanto continuare a sopravvivere e trascinarsi in attesa di qualcosa che non vuoi piu’. Razionalmente, capisci che non e’ mai stata la paura del salto nel buio a frenarti dal tornare a Londra (o non saresti mai partita dall’Italia in the first place). E’ stata la coscienza. Nessuno sano di mente lascerebbe una citta’, pur troglodita, in cui riesce a vivere in un appartamento nuovo a due passi dal centro per trasferirsi in una metropoli, lavorare dalla mattina alla sera, dividere una stamberga con altre sei persone e non avere comunque i soldi per arrivare a fine mese.
No, grazie.
Non mi va piu’.
Di correre non mi va piu’. Di tirare a sopravvivere alla vita che si conduce qui non mi va piu’. Sono stanca.
Forse e’ irrazionale tanto quanto lo sarebbe il prendere e tornare a Londra senza prospettive di lavoro, ma mia nella temporanea infermita’ mentale penso che preferirei andare a fare la fame in Italia, rischiare di essere tra quei 2 su 3 che stanno a casa, piuttosto che continuare a vivere a Manchester, lontana dagli affetti e dal nostro cibo commestibile e da medici che non mi cavano un rene solo perche’ sono in crisi da ritenzione idrica.
Ci saranno moltissime cose che mi mancheranno di questo Paese (ad eccezione di Manchester), tutte quelle cose che l’Inghilterra ha e l’Italia no, ma esse non sono piu’ sufficientemente importanti da tenermi legata ad esso.
Sara’ un congedo lungo, pure troppo. Partii con una valigia e mezza e tornero’ con una casa intera. Conti, abbonamenti, dati, residenza: tutto da chiudere, bloccare, spostare. E poi trasferirsi e’ un business maledettamente costoso. Se esistono nomi a cui ancora non ho pensato per i corrieri internazionali, sicuramente mi verranno in mente nei mesi che mancano per mettere da parte una cifra sufficiente a pagare le loro tariffe da strozzini per spostare la mia roba.
A quel punto potro’ passare agli insulti verso un Paese che non ti da’ manco gli scatoloni in cui spediarla: se li vuoi, devi andare a comprarteli da Argos.
Dieci sterline, cinque scatoloni.
Mi pare giusto.