Anno: 2011
Durata: 98′
Genere: Drammatico
Nazionalità: USA
Regia: Liza Johnson
Il cinema indipendente americano non esiste.
Si tratta di una chimera o, meglio, di una fandonia che amiamo raccontarci. Un po’ come quando tra amiche ci si rassicura circa il fatto che gli uomini non notino la cellulite. La notano. E la disprezzano.
Così il tanto strombazzato cinema indipendente americano è una sofisticata costruzione, un palliativo che ingolliamo per non ammettere la verità. Manca il coraggio nelle idee e nelle forme. Essere shockanti per quanto mi riguarda è la scorciatoia dei pigri e degli aridi. Ma non è solo questo.
L’assoluta inconsistenza di un progetto realmente svincolato, esteticamente ed economicamente, dal mercato dominante risulta dolorosamente evidente quando, in quell’inglorioso periodo che va da Natale agli Oscar, ti ritrovi pateticamente seduta a scegliere un film. Il Sundance? Mi si faccia il piacere. Me lo piazzano lì in mezzo, come il giovedì, a Gennaio, quando poi i film escono ad Aprile. Più va avanti più mi convinco che sia un astuto piano dei fratelli Weinstein per intorbidire le acque fino a san Valentino.
Specifichiamo. I film indipendenti in sala ci sono. E come. Ma sono perlopiù europei – questo siamo nella mente dei programmatori delle sale americane: tappabuchi (con una troppo disinvolta attitudine alla rappresentazione del sesso). Ora, si dà il caso che io abbia una rubrica da mandare avanti. E magari vorrei anche vedermi qualche film non diretto da David Fincher o non interpretato da Ryan Gosling, anche se, sia chiaro, che Dio lo preservi sempre.
Forse queste conclusioni drammatiche sono più frutto dello sbalzo insulinico di un 14 Febbraio trascorso da single a incamerare cioccolata. Ma tant’è. Perché questa deficienza nella programmazione delle uscite? Invece di approfittare di quell’orrorifico vuoto che si crea da metà Gennaio fino a Marzo? In tutte le sale newyorkesi, d’essai, d’antan e d’avanguardia, un solo indie in debutto: Return. Vediamolo, mi dico. E sembra la rottura del Ramadan, anche perché Return è un bel film. E l’astinenza conta poco.Diretto dall’esordiente Liza Johnson, il film è stato proiettato a Cannes 2011, durante la Quinzaine Des Realisateurs, una sezione calzante dato che si tratta davvero di un film d’autore, nel più truffautiano dei sensi possibili. Un film come un diario. Da tempo non ne vedevo di così personali.
Scritto dalla giovane regista, la pellicola racconta di una riservista, Kelli (Linda Cardellini - Freaks And Geeks, ER), di rientro dal Medio Oriente dopo un anno di stanza in un ospedale militare. Le mansioni ricoperte da Kelli non sono tali da meritare medaglie e si limitano per lo più ad interventi logistici, ma la sola vicinanza con la sozzura della guerra è sufficiente per lasciare nell’animo della giovane americana un segno indelebile.
Il rientro in Ohio risulta lento, scattoso. Le cose che avevano tutto il senso del mondo, come il lavoro in fabbrica, perdono di significato. Fare l’amore con il tuo uomo si riduce ad una fastidiosa invasione della privacy. E non importa che tutti ti dicano quanto sono fieri di te, e per cosa poi, per aver caricato e scaricato scatole dai dei cargo? Kelli perde lentamente controllo proprio su quella realtà che aveva tanto desiderato indietro. Il rapporto con il marito Mike (Michael Shannon – Boardwalk Empire) si incrina, anche a causa di piccoli screzi della donna con la legge. L’incontro con un veterano della prima guerra del Golfo (John Slattery – Mad Men) pone Kelli, ora richiamata in servizio, di fronte alla scomoda natura del suo ruolo di militare. Perché la guerra, seppure vissuta in una posizione relativamente privilegiata, è comunque una mostruosità da cui vale la pena fuggire.
Return è, sopra ogni cosa, un film necessario. Moralmente soprattutto. L’America ha bisogno di opere come queste che, senza pedagogismi o piagnistei da box-office, svelino aspetti della storia corrente del paese che difficilmente potrebbero essere colti altrimenti. La scrittura superba del film, in particolare, rende un grande servizio a questa funzione civile – terapeutica – che da sempre il cinema engagé americano ha tentato di soddisfare. Si pensi ad Altman, ma anche ai momenti più ispirati dell’Allen intimista. Perché Return è innanzitutto la storia individuale di una donna posta di fronte a scelte dettate da una società che rimane dura e inamovibile rispetto al singolo, con i suoi meccanismi inarrestabili e inumani.
Kelli sceglie di diventare un militare per poter studiare e magari fuggire dal vuoto pneumatico ed intellettuale della provincia. Ma arrivano i figli e il sogno di un’alternativa ai non luoghi della suburbia rimane, per l’appunto, una prospettiva abortita. Poi la vita bussa ed è qui per riscuotere e si deve partire. Ma tutto questo è raccontato con una precisione ed un’umanità davvero rare. Nessun trionfalismo, nessuna eiaculazione adrenalinica alla Hurt Locker (2009). Il fatto che Return sia diretto da una donna ovviamente porta con sé un confronto ineluttabile con il grande film della Bigelow. Ma parliamo di intenti e motivazioni artistiche diverse ed un’associazione tra i due film si baserebbe più su considerazioni di genere che di sostanza.
Liza Johnson
Liza Johnson ha scritto e diretto un film molto femminile sulla più maschile delle attività, la guerra. Return è femminile non nel portamento, nella ostentazione del sentimentale, tutt’altro, l’intero film gode di un rigore e di una moderazione necessarie alla vischiosità del tema. Return è femminile nella precisione della rappresentazione degli stati d’animo e dei dettagli, è femminile come la capacità meravigliosa che hanno le donne di dire molto più di quello che è contenuto nelle parole.
Non sottovalutare mai l’abilità di una ragazza di scoprire qualcosa. Questo è il monito che molte amiche americane ripetono ai loro fidanzati. Così quando l’amante di Mike entra in scena, bastano due battute e tutte le donne in sala già sanno con che creatura hanno a che fare. Ma questo è naturalmente solo un esempio estemporaneo. Liza Johnson riesce infatti a descrivere un intero mondo di aspettative e frustrazioni, gioie e timori, con una manciata di inquadrature. Quando Kelli torna a casa e divora con gli occhi la bellezza del quotidiano e del conosciuto, nonostante le case prefabbricate di un Ohio post-indurstriale dove le politiche neo-con hanno trionfato sino all’abbrutimento, ecco ciò avviene con una rapidità ed un’economia formali notevoli, senza tuttavia che l’efficacia espressiva ne sia scalfita.
Ed il merito sta tutto nella sceneggiatura ad orologeria concepita dall’autrice. Gli attori ahimè risultano infatti vittime di un casting non felicissimo. Linda Cardellini si sforza, ma è troppo raffinata e metropolitana per incarnare credibilmente un carattere così white trash. Anche Michael Shannon è decisamente sacrificato nei panni del marito vagamente insensibile. Troppa magnifica fragilità, Shannon è un attore che ha bisogno di ruoli più complessi, anche se si evince chiaramente il tentativo di voler dare un’umanità più spiccata ad un personaggio pericolosamente ai limiti dell’odioso.
Altro punto debole della pellicola è la colonna sonora. Le ambientazioni da post-modernismo distopico avrebbero suggerito un approccio musicale più coraggioso, che si avventurasse magari nei territori del noise - hello Sonic Youth di Made in USA (1986) – o, perché no, dell’industrial. Non dimentichiamo che questo Ohio così de-umanizzato e decadente, sulle terre contaminate del quale la crisi del modello produttivo americano ha lasciato il grosso delle vittime, ha nondimeno dato i natali ad una fiorente scena electro-industrial.
Questa distonia emerge, purtroppo, in un film altrimenti molto attento alle production values, con un montaggio ed una messa in scena sempre discreti ed a servizio del tema. Come ho detto, il film è confezionato con controllata sobrietà e l’unica concessione viene fatta al francesismo di una macchina a mano, evidentemente omaggio al cinéma vérité.
Sarà curioso vedere come il film verrà accolto negli Stati Uniti, ora che gli ultimi reduci sono di ritorno dal fronte e già spirano nuovi venti di guerra. Qualcuno taccerà la pellicola di anti-americanismo, ne sono certa. Io trovo Return invece un film che fa grande onore alla tradizione tutta americana del naturalismo civile, uno stile che ha trovato esponenti in diverse forme d’arte, dal cinema alla letteratura, da Altman a Twain. Una simile motivazione estetica ed etica all’indagine e allo svelamento è, a mio avviso, un carattere nazionale molto più distintivo del militarismo spinto, che è, semmai, un male transnazionale e transgenerazionale.
Stefania Paolini