Return on Involvement, Grammatica Valoriale e Filantropia: tre azzardi linguistici per una sponsorizzazione efficace

Creato il 23 settembre 2011 da Sdemetz @stedem

Recentemente ho partecipato, in qualità di relatrice, ad un incontro sullo Sport Business. Ambitions è il nome dell’evento e si è svolto a Merano lo scorso 9 settembre. Il sottotitolo è estremamente chiaro: Sport Meets Business. Un’occasione per ascoltare operatori del settore, da manager ad atleti, e confrontarsi su un tema che ha ancora molto potenziale, molta strada da fare!

Il titolo del mio intervento era oltremodo complesso, tenendo conto che avevo venti minuti per esporlo: “La Coppa del Mondo di Sci come palcoscenico per le aziende”. In questo post non intendo riassumerlo, anche perché molti spunti che ho esposto sullo schermo sono già contenuti in questo blog. Qui mi preme piuttosto cercare di creare un ponte tra il mio e altri due interventi, che pur avendo usato linguaggi e modalità differenti, in modo per me sorprendente, hanno evidenziato lo stesso messaggio: lo sponsorizzato e lo sponsor possono essere molto più efficaci se riescono ad andare oltre lo sterile rapporto del “do ut des”, soldi versus visibilità, cash verso banner.

Potrei partire dal concetto di R.O.I. proposto da Kevin Robets, CEO della Saatchi and Saatchi, che ho già esposto in questo blog. Return on Involvement significa essere in grado di sfruttare, da parte dello sponsor, la passione, straordinario vantaggio competitivo dello sport, per proporsi in modo innovativo e far convergere le emozioni del pubblico sul proprio prodotto. Come ho più volte sottolineato, questo concetto fondamentale non può essere recluso esclusivamente all’ambito sportivo. Il mondo degli eventi culturali si muove anch’esso in una dimensione di percezioni e sensazioni che toccano corde intime e profonde della propria anima.

Passione, dunque, emozioni, suggestioni, eccitazione sono stati dell’animo che si infiltrano con forza nello spettatore di un evento. Per gli organizzatori potrebbe bastare. Il pubblico si emoziona, dunque ricorda ed imprime nella propria memoria questa esperienza. Il feed back è positivo, un successo per chi ha messo in piedi l’evento.

Sarebbe tuttavia riduttivo e miope pensare che questo sia sufficiente per definirne il successo, per essere certi che qualcosa si è sedimentato. L’organizzatore, infatti, si muove all’interno di una costellazione molto più complessa in cui un ruolo decisivo, ovviamente, è giocato anche dagli sponsor, che finanziano l’evento e ne richiedono un ritorno.

Mi ha molto colpito a Merano, il fatto che dopo la mia presentazione, più persone mi hanno rivolto alcune domande che nascondevano, pur nelle diverse formulazioni, la stessa angoscia: come facciamo a trovare sponsor?

Non sono certo un guru del marketing e non intendo avere la presunzione di svelare segreti o formule magiche. Una certezza, tuttavia, ce l’ho: fintanto che noi organizzatori piangiamo perché le aziende non ci seguono, possiamo stare certi che continueranno a non seguirci. Bisogna infatti girare la freccia e cambiare approccio. Generalmente ciò che accade è che l’organizzatore frustrato e forse anche presuntuoso si rivolge ad un azienda e pretende che sia essa a dare, per il semplice fatto che noi organizziamo qualcosa di importante. Davanti si trova sovente un’azienda annoiata, distratta, al limite paternalistica e disponibile a dare “un aiutino”, una beneficienza. L’organizzatore pretende che l’azienda dia punto e basta! E l’azienda nei migliori dei casi dà!

Azienda   → Organizzatore infelice e frustrato

Se proviamo a invertire la rotta è probabile che avremmo un organizzatore appassionato che non pretende, ma offre qualcosa ad un azienda che viene a sua volta emotivamente coinvolta.

Organizzatore appassionato  → Azienda appassionata.

È solo un gioco di frecce? Di approccio? Col sorriso invece che con la schiena china? No, francamente è molto di più.

A Merano, Claudia Giordani, ex atleta e oggi titolare di un’agenzia di comunicazione, ha proposto un’espressione che mi ha affascinato molto: grammatica valoriale (qui il link alla sua presentazione). Se intendiamo la grammatica come una “rappresentazione sistematica di una lingua” (Treccani), e il valore come il carattere costitutivo di un’opera, può essere facile comprendere cosa si intenda.

Lo sport ha una sua grammatica valoriale. Le singole discipline hanno una propria grammatica valoriale. Ad esempio lo sci raccoglie valori come libertà, vigore, dinamismo, allegria. Una rappresentazione, un festival di danza, un’esposizione hanno tutte una propria grammatica valoriale.

Questo, ne sono certa, è scontato e chiaro per tutti. Come chiaro è che anche un’azienda ha una propria grammatica valoriale. Un brand, un prodotto esprimono un insieme di valori. È dunque evidente che se vogliamo fare nostre le parole di Kevin Roberts e usare la passione come linfa naturale di un evento, dobbiamo essere consapevoli che le due grammatiche valoriali, quella nostra, del nostro evento, e quella dell’azienda sponsor devono coincidere.

Un esempio estremo di non coincidenza potrebbe essere: sponsorizzare un incontro di boxe con un’azienda che produce cosmetici femminili. Le due grammatiche qui hanno poco in comune, a meno che non si tratti di boxe femminile ed i cosmetici siano di quelli per “donne che non devono chiedere mai”. Eppure, sebbene questo sia un esempio volutamente estremo, ciò accade sovente, generalmente per relazioni amicali o per la passione dell’amministratore delegato per un dato sport. La sponsorizzazione funziona, certo. Ma quanto potenziale viene buttato al vento quando si accoppiano due elementi che nulla hanno in comune? Se invece i valori della disciplina sportiva o della perfomance artistica coincidono con i valori del brand, le due dimensioni si uniscono e possono coinvolgere insieme un numero maggiore di spettatori, registrare maggiore partecipazione emotiva, ottenere una maggiore soddisfazione da parte dell’azienda, consolidare una partnership, crescere insieme e riuscire davvero a sfruttare insieme quel vantaggio competitivo.

La gente, dice Kevin Roberts, vuole essere coinvolta. Ma per farlo, aggiungo, dobbiamo essere noi i primi ad essere coinvolti.

Purtroppo oggi non esistono ancora strumenti di analisi tali da garantire una valorizzazione (evaluation) chiara della sponsorizzazione. Tentativi ne vengono fatti e anche di questo ho raccontato in questo blog, ma davvero in questo momento non si è ancora identificato un metodo efficace e completo. Non per questo, tuttavia, bisogna precludersi una sperimentazione in questa direzione: quella delle emozioni.

Sempre a Merano, Remo Rusca (ZMSA Analytics), con metodo rigorosamente svizzero, ha sottolineato lo stesso aspetto. Usando gli stessi concetti, quello della grammatica valoriale, ha cercato di andare ancora più a fondo. Non solo i valori, ma il tipo di emozioni che un evento libera devono essere conosciute bene. Si parla di neuro-marketing e ciò personalmente mi spaventa. Mi puzza tanto di manipolazione subliminale. Eppure, senza diventare fantascienziati della sofisticazione cerebrale, mantenendo cioè i piedi su questa terra, nel rispetto degli individui, è necessario pensare al rapporto sponsor-evento come ad un’occasione per arricchire il patrimonio esperienziale dello spettatore. A noi organizzatori interessa che quel momento unico e irripetibile rimanga sedimentato nel cuore di chi l’ha vissuto. Non è il marchio ad essere memorizzato e vissuto. Lo sono le storie. E allora è necessario che brand ed evento raccontino e vivano insieme queste storie. Quella storia, quella che va in scena in quel momento.

Il dott. Rusca è andato ancora oltre e ha usato una parola ormai desueta e vetusta: filantropia. Ripulendola dal paternalismo ottocentesco l’ha riportata al suo significato originale. Io, come d’abitudine, mi rivolgo alla Treccani che dice che filantropia è “l’amore verso il prossimo, come disposizione d’animo e come sforzo operoso, di un individuo o anche di gruppi sociali, a promuovere la felicità e il benessere degli altri”. L’evento, se facciamo nostra questa definizione, è un momento di felicità.

È tutto troppo poco concreto? Troppo volatile? Troppo immateriale? La domanda spontanea, immagino sia: ma come si fa? Torniamo nel mondo reale!

Io azzardo tre ingredienti fondamentali, ma essendo questo un terreno fertile e parzialmente inesplorato, è probabile che se ne possano aggiungere altri, nel tempo, con le storie che man mano vengono vissute.

1. tempo

per studiare e conoscere i propri valori e identificare aziende con valori simili, per intercettare le emozioni e le sensazioni

2. creatività e passione

per proporre alle aziende presenze e partecipazioni innovative, che superino la sterilità della passiva visibilità di un marchio

3. onestà

siamo i primi a doverci credere, siamo i primi a dover rispettare la nostra identità per rispettare quella dello sponsor, e quella del nostro spettatore.

Un evento è un pezzo di vita. È un momento di vita. Sta a noi riuscire a lasciarne una traccia indelebile nel cuore di chi l’ha vissuto.


Filed under: Marketing, Visti dalla parte dello spettatore

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