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"También la lluvia" è un'opera che sfida lo spettatore piuttosto che cullarlo e lo immerge, progressivamente e senza patetismo, in una considerazione amarissima della Storia. Attraverso il particolare arriva all'universale, e quell'universale sta nel reiterarsi ciclico del solito schema, la sottomissione dei deboli rispetto ai forti. Dentro un metalinguismo artistico ad ampio raggio, "También la lluvia" della regista Icíar Bollaín è un film emotivamente pregnante e dalla buona orchestrazione narrativa, ma è anche e soprattutto un vero saggio filosofico-sociale di attualità cocente. Alter-ego del "White material" dell'altra regista donna Claire Denis, è uno dei film migliori del 2011.
Poche volte un sussulto emotivo è così forte come nel caso di "También la lluvia", decima regia di Icíar Bollaín, splendida artista spagnola a tutto tondo. Poche volte una narrazione è così ben oleata che le si perdona un certo grado di qualunquismo/patetismo sequenziale. Poche volte un messaggio è così virulento da stordire lo spettatore e portarlo a considerazioni parimenti sofferte. E soprattutto poche volte un film così semplice, privato di orpelli eccessivamente concettuali, riesce ad essere anche una riflessione tanto acuta. "También la lluvia" è un piccolo miracolo del cinema spagnolo, intimo e granitico, accompagnato da un carico sentimentale ammirevole e soprattutto imperniato su una dicotomia storica di grande attualità, evidente con lo scioglimento dell'intreccio. Attraverso un incastro narrativo che congiunge storia trascorsa, coloniale, colombiana e storia contemporanea, privatistica e cosmopolita, ottenuto mediante l'espediente metacinematografico (forse il punto debole della vicenda, senza troppi difetti, va detto), è ribadito il criterio cardine che anima la Storia perduta e quella acquistata, ovvero il costante ripetersi della sopraffazione da parte dei più forti e potenti sui più poveri e indifesi. Le immagini degli indios "senza anima" da convertire, sfruttare e soggiogare non sono diverse dalle immagini dei boliviani che combattono per l'acqua, per la sopravvivenza, per le generazioni future. La teoria darwianiana dell'evoluzionismo è vera quando si accenna allo scontro naturale (nell'accezione socialmente evoluta di Marx), ma, svincolandoci da Darwin, diventa meno vera se paragonata al concetto assoluto di libertà. Il quesito è chiaro, la risposta, indirettamente ottenuta tramite la sovrapposizione delle due vicende, senza perdere il criterio della verosimiglianza cronologica (ovvero senza scavare nel passato se non in via incidentale tramite il contatto artistico del "film nel film"), altrettanto. E la cosa pregevole è che la Bollaín evita il film documentaristico (e quasi denigra il documentario all'interno della narrazione) e rende nella forma la sostanza, il contenuto, mantenendo un tono artistico di livello, non miltante, aperto a letture innumerevoli (identificazione della regista con il presonaggio del director interno, revisione storica con i nomi di importanti personaggi che tornano in auge, da Bartolomé de las Casas a Cristoforo Colombo, film sociale, film incentrato sull'immutabilità dell'animo umano, etc. ). Da qui il paragone, anche tematico, con l'ultima opera della Denis. Ottimo il cast, da Gael García Bernal e Luis Tosar, che sono perfetti anche se depotenziati a favore di una storia ampia e corale, in cui l'ultima delle comparse del meta-film ha una valenza emotiva pari a quella degli attori più noti, semplicemente in un'inquadratura intensa ed espressiva (vedi seconda immagine sopra).
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