Magazine Cinema
5.0 su 10
Ennesima delusione in salsa agrodolce dell'anno cinematografico americano, segno della stantia forza della commedia, che diventa un semplice canovaccio di poca originalità e mestiere, al massimo intesa come leggera e romantica fuga dalla quotinianità della propria vita nella quotidianità dello schermo. "Morning Glory" è una pellicola scritta negli anni '80, che, di volta in volta, viene riveduta e corretta e mandata in sala, dopo un lavoro di mascheramento e magari qualche tocco di elegenza maggiore, proprio per sottolineare il carattere "sophisticated" della comedy, appunto. L'aver affidato a Roger Michell la regia non significa nulla, anche perchè del modello europeo e alternativo (nel senso di differente dalla norma Hollywoodiana) del regista c'è poco, se non un avvicinarsi studiato a quel "Notting Hill" che ha portato a lui e alla sua tasca un lauto successo internazionale. Ma la cosa più grave è l'aver imbastito un cast tanto perfetto in modo così banale da risultare la quintessenza dell'inutilità e della noia. Prendete Rachel McAdams, datele un tailleur, e fatene una rampante produttrice, aggiungete due protagonisti del sistema dei nostri giorni e del passato, l'una, Diane Keaton, abituata ad avere a che fare con i programmi del mattino, nella pellicola, e le loro amenità tra previsioni del tempo, cucina e qualche storia strappalacrime (in lei rivedo molto una delle nostre conduttrici più odiate, naturalmente con uno charme ben maggiore), l'altro, un pessimo Harrison Ford, un noioso e grigio giornalista alla ricerca dell'informazione asettica ed esaustiva (anche in questo caso il confronto con la nostra televisione porta ad un paragone tutt'altro che fuori luogo). E, basandosi sul "dietro le quinte" televisivo, fatene un estenuante viaggio sulle banalissime trame che stanno dietro allo schermo, alimentate dalla necessità di aumentare il rating del programma, pena la chiusura. E il resto è buonismo puro, tutto teso al raggiungimento dell'obiettivo e alla consapevolezza che la vita affettiva vale di più di quella televisiva/lavorativa. Ed ecco che compare Patrick Wilson, un altro attore modello, che diventa un personaggio asettico e privo di verve. Alla fine è un film di jingles noti, che compaiono spesso ad "allietare" le sequenze di raccordo, mentre il senso del ridicolo è vicino e spesso superato da una sceneggiatura elementare e dozzinale (di Aline Brosh McKenna). Il mezzo voto in più è dato soltanto in virtù di una linearità che intrattiene, senza gravare troppo sullo spettatore, ma in realtà non vedo molto da salvare in una pellicola del genere.
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