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Spielberg produce soltanto, ma in realtà al povero Abrams non resta che la direzione meramente tecnica. Imbevuto fino al midollo di riferimenti poco velati alla poetica del regista di "E.T.", "Super 8" è un prodotto stagnante, vintage nella forma ma soprattutto nell'anima, zuccheroso e classico. Remake di una girandola di pellicole pù o meno note, assemblages di un cinema da reliquia, sormontato dal sovrabbondante e mellifluo sentimentalismo del maestro, "Super 8" non è un'opera disprezzabile in toto. E' un omaggio obbligatorio, verso un cinema che è stato grande e che ora è tanto piccolo da non poter fare altro che aggrapparsi al suo remoto e glorioso passato. E la delusione è tanta, come la malinconia. E l'autobiografismo fine a sè stesso continua a perdere di vista l'arte. L'amarcord lasciamolo a Fellini.
Spielberg è il nome che, nel bene e nel male, rappresenta, da anni, la cinematografia "in fieri". Tra regie, opere più o meno riuscite, produzioni ricche e fortunate, conti in banca sonanti e l'appiglio vecchio stile alla Hollywood che cerca di combinare arte e mestiere, la sua è una figura accentratrice, un po' appannata forse, ma sempre di riferimento. Nell'anno in cui ritorna al cinema con due lungometraggi molto diversi e molto rischiosi (sia il personaggio di Tintin che le avventure di "War Horse" non sono così semplici da adattare), è anche il produttore di tre pellicole "fantascientifiche" che hanno già visto la luce della sala ("Super 8" di J.J.Abrams e "Cowboys and Aliens" di Jon Favreu) e altre in prossima uscita ( ad ottobre "Reel Steel", il film di Shawn Levy con Hugh Jackman), a cui aggiungere il team consolidato con il Bay di "Transformers". Paradossalmente, quello che doveva rappresentare la componente adulta e artistica dello Spielberg 2011, ovvero quel "Super 8" il cui nome richiama direttamente la passione adolescenziale del giovane Steven per la regia di filmini destinati ai festival locali, affidato non a caso al più "personale" dei registi chiamati in causa quest'anno, J.J. Abrams, che ha rivitalizzato la saga di "Star Trek", si rivela in fin dei conti un mezzo passo falso, sotto un profilo qualitativo, imbevuto dei riferimenti apologetici rivolti al maestro Spielberg. Il vero problema di "Super 8" è che rinuncia, dopo un inizio discreto, ad essere un film originale, anche atipico per il marcato tocco vintage, e diventa una celebrazione roboante e hollywoodiana del mito del suo produttore, scegliendo la stessa (poco credibile e molto inflazionata) immersione nel buonismo eccessivo, nell'happy ending classico, nella speranza che diventa scintillio, nella comunanza umana/aliena in rapporto al dolore. Un "E.T." sulla carta più violento, magari mescolato ad "Incontri ravvicinati del Terzo Tipo" e al più recente "La guerra dei mondi", a cui aggiungere i tanti b-movies fantascientifici che trovano riferimento nel momento più riuscito della pellicola, il montato finale, sui titoli di coda, che è da solo l'unico omaggio necessario e possibile. Abrams si riduce a fare il suo compitino solito, senza quella sottile linea di ilarità che gli è congeniale, e con mezzi a disposizione non esosi, porta casa il risulato e mette in riga una serie di giovani attori che potrebbero sfondare (ma la vera fuoriclasse resta Elle Fanning) e qualche caratterista di secondo piano (Kyle Chandler). Ma la mente resta lo Spielberg classico, la sua attitudine a trasmettere sè stesso e la sua storia alla pellicola, come un Tornatore più mestierante e meno "maestro". E, in fin dei conti, non si capisce quanto e se questa cortigianeria sia un bene o meno per la cinematografia. Visti i risultati e l'effetto deja-vu, direi la seconda opzione. Soprattutto perchè l'emozione non è genuina, quanto frutto di un calcolo sempre uguale a sè stesso e il film perde di credibilità e si rifugia nella lacrima facile e vendibile.
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