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Appunti sparsi su un film detestabile e stupefacente, visivamente affascinante ma organicamente pretenzioso.
"The Tree of Life" implica una presa di posizione chiara di chi ne scrive. In questo caso, non troverete un giudizio univoco né ponderato, al massimo un'impressione, perché, a dirla tutta, non sono nemmeno in grado di affrontare compiutamente un discorso di piacere/dispiacere del durante e post-visione dell'opera. E, di conseguenza, non sono capace di comprendere il punto-limite da cui scaturisca la definizione di capolavoro e/o quella di mostruosità. Un po' timidamente, ai posteri l'ardua sentenza.
Siamo abituati ad un giudizio coerente. Sappiamo distinguere cosa ci fa bene da cosa ci fa male, a meno non vogliamo rimuovere la domanda e prendere ciò che c'è, indipendentemente dal grado di benessere/malessere causato. La visione di "The Tree of Life" porta a galla questa latenza, quella della confusione dei sensi e della ragione. Malick, il regista più mitizzato della nostra generazione, ci sfida e si pone nella prospettiva tanto del genio ambizioso quanto del paragnosta beffeggiatore. A differenza delle sue prove recenti, già di per sé aperte ad un dibattito critico sull'opportunità o meno di un cinema iper-riflessivo e quasi mancante dell'azione che non sia quella del soliloquio mentale o della rappresentazione paesaggistica integrata ma dominante sulla narrazione, "The Tree of Life" è più radicale. Non più il paesaggio immanente, luogo dell'azione, non più la voice-off dei personaggi in fieri, ma il rimando diretto ad una cosmogonia umana che parte dal principio e arriva fino all'oggi attraverso la voce fuori campo di un individuo misterioso e insoluto, mentre scorrono splendide immagini, giustapposte più che montate. Ma non basta. Malick rispolvera l'idea della relatività del Tempo e dello Spazio e crea nessi arbitrari, in cui causa/effetto smettono di esistere e si trasformano, come liquefatti, dallo Schermo, in un Paradiso immaginario, in cui l'incontro tra le anime non è più di natura comprensibile. In tutta la durata del lungometraggio, scompare l'idea di impostazione cronologica, gli avvenimenti non sono frutto di un'organizzazione chiara, ma figli del caos originario, flusso di coscienza solo in parte del narratore-personaggio, in parte ampio disvelamento dell'ottica del regista, che entra nel film e si erge a mediatore per nulla apparente delle due visioni teologiche sul senso recondito della vita: quella della grazia e quella della natura. Il regista assume questa ambivalenza, scegliendo la vita di una famiglia americana anni '50, e condensando le due diverse attitudini al mondo nei personaggi della madre affettuosa (Jessica Chastain) e del padre iracondo e repressivo (Brad Pitt), l'una esaltazione della Grazia, l'altro della Natura. In realtà la ricostruzione storica di Malick è solo pretestuosa e apparente e non mira a definire personaggi in quanto tali ma modelli esemplificativi di un'idea trascendente e generale. Il pathos emozionale è sostituito da un accorto pathos di tipo esclusivamente razionale che riesce ad interagire con lo spettatore solo grazie all'interpretazione sentita degli attori coinvolti. In tutto questo, lo scontro delle due diverse prospettive di vita esprime il connotato totalizzante delle potenzialità e dei limiti umani, attraverso la lettura della realtà operata dai tre figli e le loro conseguenti azioni. La ricerca del senso della vita, visto nella sua genealogia più che nella sua storicità, è una costante secondo Malick e le due ottiche generali di riferimento per coglierlo sono speculari, ma il regista non tace la sua scelta a favore della Grazia che registra, nella prospettiva non solo trascendente ma anche terrena, una vittoria sulla Natura. L'impronta filosofica e ideologica è piuttosto marcata e la concettualizzazione/personificazione l'unico modo di renderla sullo schermo, nonostante la pesantezza implicita e la durata abnorme.
Da un parte ci sono le idee teoriche, dall'altra la pratica. Portare una concezione filosofica al cinema richiede coraggio. La speculazione è di sua natura astratta, la narrazione è di sua natura concreta. Interpretare è diverso da raccontare. Il limite maggiore di "The Tree of Life" sta in questo. Certo Kubrick ha narrato e interpretato insieme ma la sua parabola è completamente diversa, la sua ottica (perfino nel mitizzato "2001 :Odissea nello spazio") di tipo materialista e nichilista (al dì là delle aperture astratte all'ottimismo utopico del "Figlio delle stelle"), la sua esigenza è di rapportarsi esclusivamente al mondo. Malick è un idealista, quasi fuori dal tempo, quasi fuori dallo spazio. E la sua speculazione è irrappresentabile perché idea pura. La simmetria di Kubrick diventa fluidità in Malick. Ed un fluido è sfuggente, mancante di geometria, incapace di trovare una forma stabile. Se le opere precedenti hanno mostrato come l'idea possa integrarsi, seppur tra mille dubbi e costrizioni, nella forma filmica in Malick, "The Tree of Life" fa intendere che questa possibilità sia ormai diventata utopica. Malick tenta in tutti i modi di imbrigliare la speculazione nel film ma non riesce a dare uniformità e organicità alla materia, finendo per distogliere/separare la parte visiva dal dato tipicamente narrativo. Lo scontro porta alla dissoluzione della forma filmica come la intendiamo e disorienta lo spettatore. Il cinema diventa altro da sé. Pensiamo alla lunghissima e splendida galleria di immagini naturali successive all'atto della creazione. Un miracolo visivo senza precedenti. Ma il nesso con la narrazione non è nemmeno analogico, nemmeno intellettuale, semplicemente non c'è. Ciò che non convince e che rende l'opera non definibile a priori è questa repentina disaggregazione tra immagine e narrazione. Il montaggio non è razionale, né ragionevole. Il montaggio sembra quasi portare ad un'epifania lunghissima, a-narrativa, spuria. Il punto di non-ritorno è vicino, il cinema smette di essere cinema ma non riesce nemmeno a trasformarsi in pensiero puro. Gli anni, i decenni di Malick per il completamento di una pellicola fanno intendere quanto sia dirompente lo scarto tra pensiero e narrazione e quale sia la difficoltà di arrivare ad un integrum convincente. A differenza de “La Sottile Linea rossa”, in questo caso non c’è una, pur instabile, integrazione tra i due elementi e il taglio diventa, di conseguenza, ambiguo, di certo noioso (e molto), di certo artificiale. E’ proprio su questa artificialità manifesta che Malick mostra il suo limite. La sua genialità può essere intesa come onnipotenza, come eversione fine a sé stessa, come sperimentalismo da avanguardia destinato a sciogliersi rapidamente. E Malick non riesce a sanare questo dubbio. E’ un filosofo genio o semplicemente un ricettatore scaltro di filosofie altrui? E’ il cineasta snob che dimentica il pubblico per seguire solo e soltanto la sua creatività o è una macchina ripetitrice che cerca la fascinazione fine a sé stessa senza sostanza? Per questi motivi è impossibile giudicare questa opera di Malick, perché è tanto questo che altro, perché è il tutto ma anche il niente, perché sarebbe opportuna un’analisi che riguardi la sua persona stessa attraverso i suoi collaboratori (come per Kubrick), anche se con risultati sempre parziari. E’ impossibile farsi un’idea specifica su Malick e sul suo cinema perché in sé detiene la chiave del mistero e non è per nulla propenso a svelarla. In più questo mistero potrebbe essere frutto di una genialità visionaria di artista ma anche di un’accorta razionalità di mestierante. E qui le opinioni non fanno la realtà.
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