Magazine Cinema
6.5 su 10
Aggredito da una polemica fuori luogo e perbenista (anche se sarebbe stato necessario coinvolgere l'ottica dei parenti delle vittime quantomeno nella fase di stesura per smussare alcuni angoli del personaggio troppo "umanizzati" o taciuti), "Vallanzasca" ha un grosso merito. Nel suo carattere furbo, in grado di aderire perfettamente ad un cinema televisivo e popolare (lo dimostra il successo del film dello stesso Placido, "Romanzo criminale", che è il punto di vista specifico per la costruzione della pellicola in esame e delle serie affiliate), aderisce, senza troppi demeriti, al filone del "gangster-movie" europeo, quello di Richet, creatore efficace del dittico su Mesrine e quello di Assayas, grande celebratore dell'epopea di Ilich Ramírez Sánchez. "Vallanzasca" è un film che guarda oltre l'orizzonte italiano, e si inquadra in un panorama molto più ampio, internazionale. A differenza di "Romanzo Criminale", tirato per le lunghe senza cognizione, e con una storia, quella italiana, che è un sottofondo di ricostruzione accidentato e incomprensibile (e non solo per gli stranieri, visto le letture non univoche e frammentarie dei vari eventi che hanno attraversato nel '70-'80 il nostro paese), "Vallanzasca" è molto più solido nell'impostazione, ed è un semplice film di genere incentrato sul personaggio omonimo, il "Renatino" nazionale, una sorta di Mesrine all'acqua di rose, con elementi della personalità molto commerciali, un dandy che rivitalizza l'opinione pubblica, con i suoi traffici, le sue rapine, il suo carattere eversivo e le sue "pazzie". Il film, va detto (a ragione parziale di chi parla di "operazione" discutibile e non di chi invoca la censura e il boicottaggio), non è mai una condanna, ma ha una connotazione spettacolare che fa passare il protagonista per un discolo ragazzaccio di quartiere che diventa un assassino senza pentimenti (se notate le ultime sequenze, c'è una frase che è un pò la chiave di volta, in quanto Vallanzasca non chiede perdono ai parenti delle vittime, confermandosi un "intrattenitore", un "personaggio" più che un uomo "pentito"). Inoltre la componente psicologica è smussata, quasi inesistente, a vantaggio della spettacolarizzazione fine a sè stessa. In questo senso il film di Placido è molto distante dai modelli europei di grido e usa l'ironia e il paradosso con fare sboccato, sicuramente coinvolgente, ma poco realistico. Alcuni personaggi sono fuori tono, con un dialetto acceso o interpretazioni eccessive (e spiace che Timi segua la strada di Michael Shannon e si rifugi in ruoli troppo sovraccarichi), altri, pur essendo ben recitati (Francesco Scianna) non sono così fondamentali nell'intreccio, mentre le attrici sono spaesate e ipercostruite (ed è molto meglio la Solarino, più intensa e raggiante, che una sbiadita Paz Vega). Buona la costruzione visiva e la resa tecnica nell'insieme, così come qualche citazione "rock" che non guasta mai (e il finale aiuta). Kim Rossi Stuart fa del suo meglio per dare spessore al protagonista, confermandosi un assoluto maestro di recitazione, uno dei pochi attori capaci di mutare il proprio registro linguistico, con continuità. E sebbene l'operazione non combaci del tutto con la realtà, il risultato è accettabile per un prodotto nostrano. E Placido riesce a svincolarsi dalle prove non riuscite, con una pellicola imperfetta ma piacevole, vendibile, che vale il prezzo del biglietto.
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