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La spy-story torna ai suoi fasti nelle mani del mimetico Tomas Alfredson, alla seconda prova d'esportazione dopo l'horror-imprinting di "Lasciami Entrare". "Tinker, Taylor, Soldier, Spy" radicalizza il testo omonimo di John Le Carré, a sua volta base di una miniserie in sette parti del 1979, e lo asciuga delle complicazioni più urgenti e politiche, non tacendole, ma ovattandole attraverso una costruzione/messa in scena algida e dimessa, in cui la macchina da presa diventa il personaggio-voyeur onniscente, unica a conoscere, fin da prinicipio, l'evoluzione della storia, mentre il montaggio, per lo spettatore comune e non, si fa pedina di una detective-story che sfida i canoni di genere, attenuando la ricerca del "filo rosso di senso" fino a disperderlo, con scaltrezza, nella seconda parte della pellicola, in cui la nozione causa-effetto viene sottratta a chiarezza interpretativa imminente e richiede, quasi come fosse il collo di una bottiglia, un'operazione di messa a fuoco dei particolari maturati precedentemente nei singoli flashback narrativi (il braccio circolare bottiglia della stessa ). "Tinker, Taylor, Soldier, Spy" mostra come anche la spy-story sia passibile di una destrutturazione personalissima (in cui lo stile del regista muta, ma non disperde le sue caratteristiche essenziali) e si faccia, nella sua modernità, immediato "classic" di riferimento. E l'altra chiave di volta del film sta sicuramente nell'insieme impressionante del cast, quasi esclusivamente maschile, che rende la coralità intrinseca al testo meno problematica, nonostante la durata esigua di un lungometraggio (nomi davvero incredibili quelli dei supporter, Toby Jones, Mark Strong, Colin Firth, John Hurt, Tom Hardy, Benedict Cumberbatch, Stephen Graham, Ciarán Hinds, David Dencik). Il cast tecnico non è da meno (Alberto Iglesias compositore, direzione della fotografia all'europeo Hoyte Van Hoytema, già esportato con "The Fighter"). Nota a parte va alla splendida interpretazione di Gary Oldman, attore da sempre finissimo, che qui attenua ogni istrionismo e si lascia andare ad un'operazione di sottrazione psicologica ammirevole, bypassando completamente il suo personaggio ed assumendo quel ruolo intermedio che sta tra l'interiorità e l'esteriorità dello stesso character, evitando saggiamente di enfatizzare un minimo tratto della sua personalità. Se gli Academy Awards fossero un premio alla qualità del lavoro in sè e non alle dinamiche pubblicitarie, l'Oscar come Miglior attore sarebbe, d'ufficio, nelle sue mani. Se ciò, come sembra probabile, non dovesse avvenire, Oldman ha dalla sua una serie di interpretazioni memorabili, a cui aggiungere questo George Smiley misurato e razionalizzante che svolge un po' il compito di uno spettatore-tipo senza perdere la propria centralità narrativa e le proprie prerogative di analisi avulse a chi guarda solo indirettamente. George Smiley è colui che legge le dinamiche personali e di introspezione dei suoi colleghi/nemici/amici quasi come uno psicologo puro, diventando personaggio d'azione solo sul finale, dopo aver "diretto" dall'esterno i comportamenti altrui e soprattutto dopo averli compresi e stigmatizzati, come un buon padre di famiglia, un saggio che guarda il mondo dopo averlo attraversato e vissuto (splendida la rimembranza, da piena Guerra Fredda, su Karla, persona, personaggio e organizzazione insieme). Film di testa con brevi ma compiuti inserti emotivi, da vedere con attenzione e casomai da rivedere di lì a poco.
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