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"Carlos" è un film gigantesco, il primo della carriera per Olivier Assayas. Non ci importa pensare che nei cinema sia arrivata una versione mutilata e condensata, quello che importa è che è recuperabile la versione completa, miniserie in 3 parti per una durata di circa 5 ore (in onda presto su Sky). Assayas viene meno alla discontinuità tra prodotto televisivo e cinematografico e gira un'opera monumentale, che non perde mai il suo elemento artistico, ma si presta benissimo ad una trasmissione su piccolo schermo. Le 3 parti, di durata differenziata, si chiudono con momenti topici. Le prime due (la prima con la seconda, e la seconda con la terza) sono interrotte bruscamente quando si sta per compiere un'azione, mentre la terza lascia in sospeso la vicenda, per poi riavvolgersi con le consuete didascalie. Una produzione del genere, così articolata, così dispendiosa, merita un plauso a prescindere. Ma, in "Carlos", c'è un'autorialità che lo pone ai massimi livelli di genere. Si tratta, infatti, non di una semplice riflessione sul personaggio Carlos, il terrorista Ilich Ramírez Sánchez, nè di un affresco storico (il regista mette le mani avanti e all'inizio di ogni episodio invita a considerare il ragguaglio narrativo come fiction, soprattutto per motivi legali, non essendo comprovate con certezza tutte le responsabilità, anche le più evidenti, come l'assalto al palazzo dell'Opec del 1975), ma di un'opera omnia sulle varie facce mutevoli del terrorismo, che mescola ideologia, ricchezza, potere, gigantografia e forza, rischio, filosofie di vita. Carlos non è altro che il Mesrine interpretato da Cassel. Forse il suo è un profilo più articolato, il suo background più complesso, il suo peso storico di gran lunga più importante. Ma sempre di "una persona non gradita" si tratta. Carlos è l'alter-ego di Mesrine, con molti punti in comune, e qualche differenza sostanziale, soprattutto nella radice ideologica, marcatissima nel caso del primo, vicino alla causa palestinese, quasi nulla nel secondo. Ad un certo punto le due vite mostrano in realtà di essere le medesime, nonostante tempi e luoghi divergenti. Entrambi sono mercenari, entrambi abbandonano le proprie donne, con l'unica differenza nella politicizzazione della loro figura. Ramirez è un uomo impossibile da recludere, attento ad interagire con un numero costante di capi di governo e di organizzazione segrete, Mesrine è un uomo solo, senza politica, un pivello a confronto, una maschera televisiva e un fenomeno culturale. Carlos viene prelevato, quando il mondo post-blocchi non ha più alcun bisogno di lui, Mesrine è al centro di un'operazione di polizia vera e propria, in cui la politica si vede appena. Il film si basa su un numero congruo di personaggi, che entrano ed escono dalla vicenda, talvolta senza rumore. Assayas vuole seguire solo il suo carattere principe e affida la parte ad un monumentale Edgar Ramirez, che sembra un Marlon Brando alle prese con una ribellione inziale che diventa semplice lavoro a comando. Ramirez ci mette anima e corpo e vince ogni confronto. La parte sembra essere stata scritta da lui, piuttosto che da Assayas, anche sceneggiatore. Una lunga serie di coprotagonisti aiutano a modellare una pellicola che non pesa quasi mai, nonostante la durata, sempre di ottima fattura (con un'ottima fotografia e accorgimenti di colonna sonora evocativi e perfettamente in linea con le immagini). Assayas sembra invisibile, ma la sua macchina, in realtà, è una presenza costante, capace di imporsi, facendo emergere il profilo prima narrativo e poi, attraverso un montaggio lineare ma chiasmatico, le caratterische emotive. Non in presa diretta, senza inutili orpelli, solo con le interpretazioni. Ultimo appunto al coraggio. Coraggio di dare un'impronta cinematografica ad un terrorista ancora vivente, mettendone in evidenza le contraddizioni e i limiti. Grande cinema.
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