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Distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti, "Il responsabile delle risorse umane" di Eran Riklis è un'opera agrodolce, in cui l'elemento storico e quello poetico si fondono seguendo una paradigma bizzarro, non perfetto, in un "on-the-road" vecchio stampo dai connotati umanitari.
7.0 su 10
Il cinema israeliano è vivo, vivissimo. Per un Eran Riklis ormai nome consolidato, c'è un altro importante e speculare nome da tenere d'occhio, quello di Elia Suleiman, che da "Intervento Divino" a "il tempo che ci rimane", ha dato prova dell'eistenza di un cinema arabo in terra israeliana convincente e istrionico. Anche Riklis, nonostante la provenienza direttamente opposta (è di ceppo ebraico), si avvicina in parte a sfumature chhe uniscono racconto realistico ed elementi tipici di generi diversi, come la commedia, che sia surreale, paradossale, incidentale. "Il responsabile delle risorse umane" è un'opera imperfetta, mai davvero potente, nè militante. Inoltre lo stile di Riklis perde molto, se paragonato al linguaggio sfumato e cinematografico di Suleiman, che è attentissimo alla ricostruzione scenografica e alla creazione di un mezzotono recitativo unico. Riklis non ha un'immensa capacità di articolare una propria formalità chiara, piuttosto si dedica con forza non mentale alla scrittura della storia. La narratività non è mai banale, eppure non è mai nemmeno personale. E' una sceneggiatura che media tra l'estro artistico e la necessità di non allontanarsi troppo dal filo occidentale. In quest'ultimo film, esplora l'assunto tragico di un attentato in territorio israeliano. A questo segue il rimpatrio nella terra natale di una delle vittime, di cui è obbligato a farsi carico un impiegato, addetto alle risorse umane (il termine calza a pennello) della ditta/panificio in cui la donna lavorava. Riklis costruisce un film di poco più di 90 minuti riuscendo a far emergere, nel viaggio di ritorno, costantemente un sentimento di ilarità e di divertita partecipazione, attraverso il sorgere di imprevisti paradossali, mentre, comunque, non tiene a freno l'elemento drammatico, ma lo affianca a momenti in cui la gioia di vita, nelle sue diverse forme, diventa l'elemento chiave di lettura della vicenda. E' emotivamente accattivante l'alternanza e la caratterizzazione acuta dei personaggi a cui viene associato soltando un epiteto comune (The boy...), in cui spicca il noto Mark Ivanir, anche se manca un momento davvero geniale e l'opera, seppur non convenzionale e da ammirare per la capacità di essere il punto di incontro di culture differenti, rimane a tratti sbiadita, elementare, mancante di un qualcosa che possa farne un film "autoriale" a tutto tondo. il regista, come accaduto anche nelle sue opere passate, non riesce a smorzare il suo lato commerciale e crea un ibrido convincente la maggior parte delle volte, ma a tratti ripetitivo e senza la forza di conquistare lo spettatore. Il problema è soprattutto di credibilità stilistica, e consiglierei a Riklis di guardare a Suleiman, perchè davvero le potenzialità ci sono e il filone israeliano, che sia arabo o ebraico, può essere un elemento unificante notevole e perspicace.
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