Magazine Cinema
7,5 su 10
Eccolo il vincitore all'Oscar nella categoria "Miglior film Straniero". Si chiama "In un mondo migliore" ed è diretto da una regista molto nota anche in quel di Hollywood, Susanne Bier, danese d'esportazione, all'occorrenza. In primo luogo, voglio sottolineare che il riconoscimento non è immotivato, anzi per molte ragioni è più che condivisibile. Ciò non significa che la pellicola sia esente da imperfezioni, ma che, nel complesso, risulti di gran lunga il prodotto straniero più adatto ad una manifestazione/premiazione del genere. La bellezza del film sta nella sua coralità e, contemporaneamente, nell'intimità emotiva che riesce a creare in chi guarda, senza dimenticare nè il "realismo" nero e crudo di un dramma nella sua connotazione anglosassone nè la perfetta "messa in scena", coordinata su un parallelismo continuo tra due luoghi distanti del pianeta terra, un paese indecifrabile di un'Africa tradizionale e malata, e una cittadina danese che risplende dei suoi paesaggi tersi e immortali, di una bellezza visiva rara, in cui la violenza è in incubazione Proprio questo parallelismo è il momento di cesura tra due storie non sempre funzionali sotto un profilo narrativo, ma importanti per concepire la concezione e le motivazioni alla base di ogni "violenza"e la necessità di ferma opposizione ad essa. Molti potranno trovare superflua una parte rispetto all'altra; in realtà la missione in Africa non è che una postilla importante sotto un profilo tematico (il confronto morale e quello sociale) che ha una sua valenza drammaturgica (in relazione alla definizione del personaggio di uno dei due padri, spesso lontano dalla famiglia). Ma la cosa bella di "In un mondo migliore" è che non richiede lucide analisi razionali, di schematizzazione, ma si affida spesso all'immagine come mezzo emotivo fine a sè stesso, in cui la linearità garantisce una facilità rara di comprensione. In questo senso, sono la fotografia, il movimento di macchina, le brevi digressioni paesaggistiche in campo luogo, a riuscire a servire da raccordo implicito tra le sequenze, in grado di colpire lo spettatore in sè, senza bisogno di inutili didascalie. E' il respiro totale dell'opera che colpisce, nonostante le evidenti forzature. Supportata da un cast di ottimo livello, e con due giovani protagonisti bravissimi, il film è una sorta di incontro di "storie diverse", in cui ogni tema, anche il più duro, trova una sua sistemazione. Come un romanzo, in più, la regista è brava a evidenziare le angolazioni dei singoli personaggi, chiamati ad avere a che fare con il dolore della perdita, la paura, il confronto e la mancanza. La beffa è che la Bier sconfigge Inarritu con armi uguali e contrarie, attraverso un viaggio corale di storie diverse, che si incontrano, però, senza razionalismi ma con emotività, in una "Babele" sentimentale e non accidentale.
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