Richard Attenborough (Wikipedia)
Ci ha lasciati Sir Richard Samuel Attenborough (Cambridge, 1923) morto ieri, domenica 24 agosto, a Londra, fra i più autorevoli esponenti del cinema britannico, sia nella qualità di attore che come regista, ottenendo prestigiosi riconoscimenti nell’ambito delle due attività, caratterizzate in diversa misura. Nella prima prevaleva infatti l’essenzialità nel porsi sulla scena, accompagnata da un certo acume nel tratteggiare le varie caratteristiche, caratteriali in primo luogo, dei personaggi interpretati, nella seconda invece si delineava una sorta di grandiosità ragionata, ovvero la spettacolarità (da intendersi essenzialmente come accurata ricostruzione storica e dispiego delle masse) veniva efficacemente mediata da una fluida affabilità narrativa, scandita attraverso le classiche elissi temporali, idonea ad andare incontro al grande pubblico nell’affrontare determinati eventi storici e sociali. Esemplare al riguardo la costruzione del film Gandhi, 1982, certo la sua opera più riuscita, che poteva inoltre contare sull’ottima interpretazione, ma sarebbe forse meglio definirla identificazione, offerta da Ben Kingsley nei panni del Mahatma, cui andò l’Oscar come miglior attore protagonista, da aggiungersi alle altre otto statuette conseguite dalla pellicola (miglior film, regia, sceneggiatura originale, scenografia, fotografia, sonoro, costumi, montaggio).
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Attore di formazione teatrale, Attenborough debuttò sul palcoscenico del Leicester Little Theatre ancora prima di frequentare la Royal Academy of Dramatic Art, per poi esordire al cinema nel 1942 (In Which We Serve, Gli eroi del mare, David Lean e Noël Coward), il ruolo di un marinaio disertore, iniziale interpretazione cinematografica di individui non propriamente “limpidi” come quelli che seguiranno in A Matter of Life and Death, (Scala al Paradiso, Michael Powell ed Emeric Pressburger, 1946) o London Belongs to Me (Sidney Gilliat, 1948), arrivando infine al giovane malvivente psicopatico Pinkie Brown in Brighton Rock (1947, John Boulting, adattamento dell’omonimo romanzo di Graham Greene).
Seguirono man mano incursioni anche nel genere della commedia (Brothers in Law, Quattro in legge, Roy Boulting, 1957 ), fino alla naturale evoluzione, considerando la rilevanza assunta nel corso degli anni all’interno del mondo dello spettacolo inglese, verso il settore produttivo (nel 1959 fondò la casa di produzione Beaver Films, poi Allied Film Makers, insieme al regista e sceneggiatore Bryan Forbes) e l’esordio dietro la macchina da presa, una volta ottenuta la grande notorietà come attore, prendendo parte ad alcuni film hollywoodiani, quali The Great Escape (La grande fuga, 1963, John Sturges), The Sand Pebbles (1966, Quelli della San Pablo, Robert Wise, Golden Globe migliore attore non protagonista, premio replicato col successivo Doctor Dolittle, 1967, Il favoloso dottor Dolittle, Richard Fleischer).
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Il debutto alla regia avvenne nel 1969, con la satira antimilitarista Oh, che bella guerra! (Oh! What a Lovely War, tratto da un lavoro teatrale di John Littlewood), e proseguì con il primo lavoro biografico, Young Winston (Gli anni dell’avventura, 1972), incentrato su infanzia e giovinezza dello statista Winston Churchill, A Bridge too Far (Quell’ultimo ponte, 1977) e Magic (Magic ‒ Magia, 1978), riuscendo infine a dare compiutezza, stilistica e di contenuti, alla sua idea di “fare cinema” con il già descritto Gandhi, frutto di un progetto coltivato da parecchi anni.
Notevole poi Cry for Freedom (Grido di libertà, 1987), partecipe e appassionata narrazione della lotta anti-apartheid dei neri in Sudafrica, vista nell’ottica del bianco Woods (Kevin Kline), direttore di un giornale progressista che ha modo di conoscerne il leader Biko (Denzel Washington) e poi perpetrarne il suo grido contro le ingiustizie in nome degli ideali di progresso e libertà.
Molto bello anche il precedente A Chorus Line, 1985, tratto dall’omonimo musical di Michael Bennett, Nicholas Dante e James Kirkwood Jr., nel quale si staglia ancora una volta la tematica cara ad Attenborough del singolo individuo, idoneo, in virtù di una supremazia tanto intellettuale, quanto caratteriale e carismatica, ad influenzare, se non a modificare, il corso delle umane vicende, offrendo alternative e affascinanti strade da percorrere in nome di un progresso prettamente morale, per un’evoluzione idonea a condividere le conquiste effettuate.
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Non del tutto riuscito invece, pur nella consueta accuratezza della ricostruzione storica-sociale, Chaplin (Charlot, 1992), incapace, almeno ad avviso dello scrivente, se non a tratti, quindi con una certa discontinuità, di offrire un ritratto effettivamente compiuto, organico, ma soprattutto inedito, di una personalità sicuramente complessa quale quella di Charles Chaplin, già desumibile da pressoché tutte le sue opere, che nel citato film appare sempre in lotta fra realtà e leggenda, contrapposte come “due eserciti l’un contro l’altro armati”. Egualmente apparivano non all’altezza delle precedenti realizzazioni pellicole quali Shadowlands (Viaggio in Inghilterra, 1993) o Grey Owl (1999), bloccate da toni sin troppo accademici e calligrafici, sospese fra routine e manierismo, lontane dalla vibrante affabulazione cui Attenborough ci aveva piacevolmente abituati. Inedito in Italia è il suo ultimo lavoro da regista, Closing the Ring, 2007, mentre si ricorda con affetto il ritorno sulle scene come valido caratterista nel 1993, il dottore John Hammond all’interno del Jurassic Park di Spielberg, un’interpretazione valida a conferire un tocco di lucida visionarietà al nuovo giocattolo, ai tempi, del buon vecchio Steven.