E’ una giornata di pioggia a Budapest. Cammino tra la i passanti con la mia musica nelle orecchie, come sempre e una voce dentro le cuffie canta della fine del suo amore e di certe notti e avventure della strada che torneranno mai più.
So che un sacco di recensioni su questo disco sono già state scritte. Quello che volevo lasciare era solo un’idea tutta mia. Quello che state per ascoltare non è nient’altro che ciò che ha già riempito tutta questa mia giornata. Non è altro che pioggia.
Rickie Lee Jones, al giorno d’oggi (purtroppo) misconosciuta cantautrice folk e Jazz d’oltreoceano, esordisce giovanissima a fine decennio dei Settanta con un album a suo stesso nome multicolore e precocemente maturo, pieno di sfumature esotiche, blues e pop in grado di evocare la più grande tradizione americana di artisti rock e non solo, poeti beat, cantastorie, autori hipster e i cosidetti artisti di strada. Ella oltre ad essere seducente e con una voce particolare, non particolarmente virtuosa ma suadente come poche altre nel panorama musicale leggero del tempo, è anche la compagna di vita di Tom Waits, al tempo meno noto bluesman dai connotati di bohemien ubriaco e con un inclinazione al cabaret che avrebbe poi fatto scuola nei tardi Ottanta e riscosso un enorme successo di critica e pubblico nei Novanta fino ai giorni nostri. Il fatto è che la loro storia si presenta come il quadro artistico e mondano per inquadrare tutta una scena di artisti post- tutto, un immaginario statunitense nostalgico del bebop jazz e del blues nero, fatto di kerouac e bukowski, whisky e malinconia. Improvvisamente la loro storia finisce e con questa sembra voltare pagina anche questo intero universo. Da tutto questo si può dire nasca il suo secondo tormentato lavoro, chiamato scherzosamente “Pirates”. Forse così amavano definirsi, insieme, Waits e Jones.
Per chi conosce la nostra, “Pirates” si conferma come essere la summa dark di tutta la sua opera, il suo disco più oscuro e in qualche modo anche dolcemente insopportabile. Ma non si tratta di un disco di contraddizioni come può sembrare da questa confusa descrizione delle sensazioni che emergono da questo lavoro, ma tutt’altro: tranne qualche isolato, schizofrenico episodio si tratta di un disco anemico e monocorde, basato su note blu e rassegnate, melodie jazz strascicate e quasi infinite, la perfetta nemesi del solare esordio, un disco per anime perdute e ragazze in cerca di un’identità. Un disco profondamente femminile, basato sui sentimenti dell’amore e dell’oblio, forse una delle opere più romantiche mai concepite, nel senso più ampio della parola.
We Belong together si apre epica e disperata, è la prima ode a Waits e Rickie singhiozza quasi ubriaca, farnetica, fa tutt’altro che cantare. La sua voce risulta fastidiosa al limite del bisbiglio isterico e cita luoghi, scenari metropolitani, delira e confessa, il suo amore perduto, la sua rinuncia alla felicità e quel pianoforte pugnala e non sembra volersi fermare. Fino all’epico finale fatto di un tripudio di strumenti che sembrano gioiosi e consapevoli perchè ormai rassegnati a quella fine intravista sin dal principio.
Living it up si configura come la gemma dell’album, dolce come una ballata della Joni Mitchell di Court and Sparks, ma più fredda e straziante. Mai un ritornello di Rickie era stato allo stesso tempo tanto melodico quanto ammaliante (Oh Wild and the Only ones, Tell him where you are, Oh Wild and the Only ones, Tell him where you are, Tell him where you are) per poi tramutarsi in una marcia lenta angosciante e poi riavvolgersi nuovamente su se stessa, solo come la migliore tradizione jazz-rock sa fare.
Solo Pirates sembra (apparentemente) una canzone entusiasta e vivace con le sue fanfare appese ai ricordi di quelle notti a pardere per le strade dell’America sporca e ubriaca di Hipsters e accattoni. Mentre Lucky Guy affoga in arrangiamenti sopraffini, con una voce multiforme che sa blandire e dichiarare la sua discreta invidia per un certo “ragazzo (più) fortunato” di una qualsiasi “lonely girl” come lei.
Ma il climax vero e proprio di Pirates sembra essere quella Traces of Western Slopes che si avvicina alla fine di questa
breve, bizzarra e inconsistente opera rock. Un valzer al limite del delirio psichico, un continuo botta e risposta tra un uomo e una donna (oltre a Rickie c’è anche una voce maschile all’inizio ad aprire sorprendentemente il pezzo) e avvolto dai battiti marziali di un basso affilatissimo e il solito fatale pianoforte della Jones, che sembrano anchessi farsi guerra in questa incredibile melodia troppo ingombrante per essere ingabbiata in solo otto perfetti minuti.Solo dopo aver ascoltato questo disco varie volte ho scoperto che la bellissima copertina raffigurante una scena notturna di incontro tra un uomo e una donna che non si baciano ma solo si sfiorano in una strada deserta è opera di un famoso fotografo ungherese caro a Henry Miller e a tutta la tradizione di arti visive beat e non solo, ho capito che questo disco faceva esattamente per me, per quel momento della mia vita che stavo vivendo in un anno fuori casa, vissuto pericolosamente a Budapest. Un disco anch’esso fatto di contraddizioni, di tanti strati e di cori furibondi o confusi, di gioia e rabbia cantate assieme con straripante passione.
E’ in qualche modo ancora un disco fatto di pioggia.