Minore spesa pubblica, così da poter abbassare le tasse e restituire un po’ di potere d’acquisto ai consumatori e un po’ di libertà vitale agli imprenditori. In estrema sintesi, è questo il filo rosso che seguiamo nelle analisi pubblicate sul sito Capiredavverolacrisi.com. Si tratta di un’analisi e di una ricetta così strampalate? Come dimostrano definizioni e articoli che riportiamo su questo sito, non ci sembra proprio. E una piccola conferma viene anche da un recente libro del sociologo ed editorialista Luca Ricolfi.
Luca Ricolfi è un affermato sociologo all’Università di Torino, prim’ancora che editorialista di varie testate nazionali (fino allo scorso anno ha firmato in prima pagina per la Stampa di proprietà Agnelli, adesso è passato al Sole 24 Ore di proprietà della Confindustria). Analista tutt’altro che ideologico, ha sempre tentato di fondare i suoi ragionamenti su numeri e tesi verificabili da tutti, quindi apertamente criticabili da chiunque; pure per questa ragione non è facilmente etichettabile con questo o quell’altro partito politico o corrente di pensiero. Negli ultimi mesi, per esempio, sta compiendo un’utile opera di critica rispetto agli annunci più propagandistici del Governo Renzi.
Ricolfi di recente ha scritto un libro intitolato “L’enigma della crescita“, in cui intende spiegare perché il tasso di sviluppo dei paesi avanzati si sia ridotto nell’ultimo cinquantennio e perché ciò sia avvenuto in maniera ancora più grave nel nostro paese, in Italia. Le tasse troppo alte, come vedremo, c’entrano eccome con questo evidente declino.
Ricolfi nel suo libro analizza il periodo immediatamente precedente la crisi mondiale del 2007, così da evitare che la sua analisi sia influenzata da shock particolari e piuttosto rari. La prima considerazione è la seguente: i paesi avanzati avevano un tasso medio di crescita del 4% negli anni Sessanta, del 3% scarso negli anni Settanta, poi del 2% negli anni Ottanta, infine appena sotto il 2% negli anni Novanta. Al punto che, crisi o non crisi, Ricolfi scrive: “Se il trend degli ultimi 50 anni dovesse continuare, quel che potremmo attenderci nei prossimi 10 anni è una crescita prossima a zero”. L’Italia, purtroppo, in questo campo primeggia (si fa per dire): dal 1995 al 2007, l’Italia assieme al Giappone è il paese avanzato che cresce più lentamente, all’1,1% l’anno, appena quanto necessario per non dover dichiarare default sul proprio enorme debito pubblico; nello stesso periodo l’Estonia è cresciuta un ritmo vicino all’8%, l’Irlanda quasi al 6%.
Il sociologo dell’Università di Torino parte così alla ricerca di una “equazione della crescita”, per poi scrivere: “Mi sono reso conto che a dispetto di tutte le medicine con cui ci illudiamo di poter stimolare la crescita, quella del reddito di partenza (y al tempo 0) è di gran lunga la forza dominante che governa le traiettorie delle nostre economie. E tale forza gioca nettamente e pesantemente contro la crescita, e in questo senso è una controforza: un reddito di partenza elevato è un formidabile freno alla crescita, un freno che si può neutralizzare solo con enormi sforzi di trasformazione strutturale del sistema economico-sociale, ossia cercando di modificare le altre variabili che influenzano la crescita”. Ricolfi riconosce una deriva che è quella tipica della “società signorile”, come la chiama lui, dedicandovi ampia parte delle sue riflessioni. Una società in cui l’alto livello di benessere raggiunto contrae in maniera duratura l’offerta di lavoro (pensiamo al fenomeno dei giovani che, grazie al sostegno delle famiglie, possono permettersi di attendere per mesi o anni “il lavoro della vita”), aumenta il costo dello stesso lavoro, aggrava il deficit di motivazione, e fa sì che si attendano i soli immigrati per ricoprire i posti vacanti nei settori considerati più umili.
Il nostro paese, così come gli altri avanzati, è dunque condannato a una crescita pari a zero? Ricolfi non è pessimista fino a tal punto; piuttosto suggerisce di concentrarsi sulle altre variabili che pure influenzano la crescita. Oltre al reddito di partenza, infatti, il sociologo ritiene fondamentali il capitale umano (il livello di conoscenza diffuso tra i nostri cittadini), il saldo degli investimenti diretti esteri (la presenza di capitali stranieri pronti a investire in un paese), la qualità delle istituzioni economiche (bontà e rispetto delle regole), e infine le tasse.
Dove le tasse sono più alte, la crescita è più bassa. Ricolfi, in base ai suoi calcoli, sostiene in particolare che sono le tasse sui “produttori” a deprimere maggiormente il tasso di sviluppo di un’economia. Come siamo messi, a questo proposito, nel nostro paese? Secondo i calcoli della Banca mondiale sul cosiddetto Total tax rate (Ttr), ogni anno un’impresa in Italia deve restituire in media il 65,8 per cento dei suoi profitti allo stato sotto forma di tasse. La media europea è di 25 punti percentuali più bassa: 41,1 per cento. Se pure teniamo conto del dato depurato dai contributi sociali a carico dell’impresa, cioè nel caso italiano la somma di Ires e Irap, a oggi nel nostro paese c’è un’aliquota complessiva di 31,4 punti percentuali sulle aziende: un livello di per sé alto, visto che l’aliquota nominale dovrebbe essere almeno al 25 per cento. E questo non è l’unico aspetto da considerare. Quando Prodi nel 2007 abbassò l’aliquota dell’Ires dal 33 al 27,5 per cento, aumentò allo stesso tempo la base imponibile. Insomma, oggi l’aliquota effettiva sulle imprese italiane è più alta.
L’Italia dunque, anche a questo proposito, è un caso limite. Se nel periodo 1995-2007 è cresciuta meno di tutti gli altri paesi avanzati, con un pil annuo in salita di appena 1,1 punti percentuali, è soprattutto perché “l’imposta societaria” è stata mediamente al 42,4% mentre nei paesi nordici era al 28% (VEDI GRAFICO).
Scriveva d’altronde uno sconsolato Ricolfi, sulla Stampa, già nel 2011: “Come sociologo, non ne sono troppo stupito. La politica ha tutto l’interesse a occultare il ruolo frenante delle tasse, perché non ha il coraggio di ridurle. Le cosiddette forze sociali, d’altro canto, hanno tutto l’interesse a concentrare l’attenzione sugli altri fattori che limitano la crescita, perché ogni singolo fattore di handicap reclama più risorse pubbliche per i soggetti che lo controllano o se ne fanno paladini. Il risultato è che la spesa non diminuisce, la pressione fiscale resta quello che è, il Paese – sia pure molto lentamente, per fortuna – sprofonda nel sottosviluppo”. Amen.