Luglio, 1992, ero in Sicilia. Un caldo infernale, ma nei miei 7 anni e mezzo - perché già allora mi piaceva puntualizzare - quello che mi ricordo meglio, oltre a un calamaro gigante sulla spiaggia ed il sole rosso nel cielo nero, è quella scena in quel salotto, di quella bellissima casa a due metri dal mare. Non ho memoria del prima e del dopo, so solo che a un certo punto fu silenzio. I miei, i miei nonni, gli amici di famiglia incominciarono a mettersi le mani sulla faccia, ad imprecare, a piangere, ad affollarsi davanti a me. Tutti guardando con gli occhi sgranati la tv. So di non aver capito allora il perché: ma per cinque minuti buoni piansi anch’io. Per lo sconquasso, per quell’aria così agitata che si respirava e perché se evidentemente la morte di quel Paolo Borsellino portava così tanta tristezza in casa mia, era chiaro: doveva trattarsi di qualcuno molto amato, un parente, o un quasi parente o comunque qualcosa del genere. Ancora adesso, che conosco il perché di tutto quel trambusto, in fondo, continuo a pensarla così.
Ed è per questo che ogni volta sento di dover esser presente a una qualsiasi rappresentazione, presentazione, proiezione di documenti, incontri, film che si occupino delle mafie, della loro violenza, del loro potere e di tutti i morti ed il dolore che hanno lasciato sui bordi delle strade, nelle case in questi anni.
Ecco. Ieri sera fa parte di una di quelle volte.
Villa Bombrini, bellissima come sempre. Tanti ragazzi, per lo più di Libera. E tante zanzare. E poi: Libero Cinema. In occasione della rassegna di cinema itinerante "Libero Cinema in Libera Terra", promossa come ogni anno da Cinemovel Foundation in collaborazione con Libera a Genova arriva: Uomini soli, un film di Attilio Borzoni e P. Santolini. Un film documentario che ripercorre le strade dove furono ammazzati Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulle gambe allenate di Attilio Borzoni, appunto, che inviato di Repubblica, racconta gli anni delle stragi, trent'anni dopo.
Tra i primi volti che vediamo c’è quello segnato e stanco di una fotografa: “io non ero una fotoreporter di guerra, non ero partita, ero rimasta qui a Palermo, e la guerra ce l’avevo sotto casa, ogni giorno”. I giornali all’epoca titolavano: “la città mattatoio: Palermo come Beirut”.
Si sbagliavano Palermo era peggio di Beirut.
Mentre scorrono le immagini, i racconti si riesce quasi a sentire quell’odore acre di bruciato, quel fumo denso delle bombe. Lacrimano gli occhi.
Ad un certo punto parla Giuseppe Costanza, l’unico sopravvissuto alla strage di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il giornalista gli chiede: “come stai? “– e lui risponde: “sai quando mi hai chiamato e mi hai detto di vederci dall’albero di Falcone , quell’albero cresciuto davanti alla casa del giudice, che ormai è un simbolo della lotta per la legalità e dove chiunque si ferma e lascia fiori, messaggi, lacrime, ho pensato, che non ne avevo tanta voglia, e che avrei voluto dirti di no, perché fa ancora troppo male.”
Ed è vero. Fa proprio ancora troppo male. Borzoni, mentre si muove tra un angolo e l’altro di Palermo, e incontra le lapidi, le targhe, le mogli, le madri degli agenti della scorta, i magistrati del maxiprocesso, il medico legale che, amico del pull antimafia, ebbe l’ingrato compito di eseguire l’autopsia sui corpi di Giovanni, Paolo, Rocco, Antonio, Vito, Agostino, Emanuela, Vincenzo, Walter Eddie e Claudio, ad un certo punto ci dice perché fa ancora così male: perché dopo trent’anni stiamo ancora aspettando di sapere la verità.
C’è la moglie di Montinaro: “hanno ucciso Antonio, ma non me ed i miei figli. E da qui non me ne vado, perché si ricordino di quello che è stato, anche senza ch’io debba aprir bocca".
Il coraggio. E per avere coraggio, come diceva Montinaro appunto, bisogna avere paura, altrimenti si è solo dei vigliacchi.
La pellicola va avanti, non si ferma più. E non riesci a pensare, continui ad ascoltare, cose che già sapevi, altre che pensavi di sapere, ed invece... Ti sale una strana tensione alla bocca dello stomaco, non riesci a trattenerla, eppure te la sei raccontata anche questa volta: “calma e sangue freddo, si guarda, si ascolta, ci si informa e via!”. Ma non va così. Torna quel malessere, omnipresente: il dolore del parente morto, appunto. E la rabbia. Tanta.
Tra le ultime voci che ci raccontano quegli anni c’è quella del padre di Nino Agostino: poliziotto ammazzato, con la moglie incinta, il 5 agosto del 1989. Antonino Agostino stava indagando sul fallito attentato dell'Addaura a Giovanni Falcone. Ancora oggi non si conoscono i nomi degli esecutori, ne dei mandanti di quell’agguato. Vincenzo, suo padre, ci dice che non se la taglierà quella lunga e vaporosa barba bianca. Non se la taglierà finché non verrà fatta giustizia.
E questo è quello che mi auguro anch’io, con tutto il cuore. In queste ultime settimane è tornata sui giornali la notizia delle indagini sulla trattativa stato-mafia, le implicazioni di politici, organi dello stato. Ecco: non smettiamo mai di chiedere che venga fatta chiarezza, che ci venga restituita, almeno, la verità e che i colpevoli, tutti, paghino.
A Palermo, ed in tutta Italia, il conto è già stato fatto: in ultimo a Genova, il 17 marzo per la manifestazione di Libera: 824 sono le vittime di mafia dal 1983 ad oggi.
Come a dire: sopravvissuti pochi, morti parecchi.
Continuiamo a parlarne, a tenera alta la guardia, perché la mafia uccide sempre gli uomini che lo stato lascia soli.
Uomini soli, appunto.
Mai più. (Elisa Leveratto)