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Ridley Scott, “Prometheus”

Creato il 19 settembre 2012 da Patrizia Poli @tartina

di Patrizia Poliimages

Prometheus, l’ultima nostalgica fatica di Ridley Scott, regista dei mitici Alien e Blade Runner - tensione allo stato puro il primo, immaginifica poesia il secondo – è una sorta di fiacco prequel di Alien. Non lascia il segno, non fa svegliare al mattino con le immagini del film che ti scorrono dentro, non è destinato a diventare mito, a meno che non sia, come probabile, il capostipite di una nuova serie. Ci viene da pensare che la fantascienza non abbia più le ali, che non sappia rinnovarsi, trovare nuove tematiche, nuovi soggetti, che la fantasia sia morta.
Il film si pone, almeno nella prima parte, come l’antefatto di Alien e da quello non si discosta. Il ritmo è lento, i temi sviluppati sono tipici della fantascienza classica, sia letteraria sia cinematografica: l’alieno cattivo (La guerra dei mondi); l’astronave sepolta che prende vita dopo migliaia di anni e riparte allontanandosi nello spazio siderale (Indiana Jones e il teschio di cristallo, I Tommyknockers); la contaminazione e conseguente trasformazione da umano in alieno (L’invasione degli ultracorpi, Io sono leggenda); il replicante desideroso di umanizzarsi (Blade Runner, Artificial Intelligence, L’uomo bicentenario); i manufatti alieni nell’universo (2001, Odissea nello Spazio, Mission to Mars); la scoperta archeologica che dà il via ad una spedizione nell’universo (Stargate).
Nella seconda parte si ha un piccolo balzo in avanti a livello filosofico- esistenziale, con la tesi, mutuata da Star Treck, della ricerca dell’artefice. Laddove era la sonda Voyager a volersi riunire con chi l’aveva prodotto, cioè l’uomo, in Prometheus siamo noi umani a cercare gli extraterrestri che ci hanno creato manipolando il loro dna, e poi hanno deciso di distruggerci infestandoci di mostri polipoidi. Scopriamo quindi che i simil - alien sono stati, dunque, costruiti in laboratorio come mezzi di distruzione di massa.
Caratteristica la strenua lotta del personaggio femminile per sopravvivere. La dottoressa Elisabeth Shaw non ha la grinta carismatica di S. Weaver, ricorda semmai l’inizialmente sprovveduta Sarah Connor dell’altrettanto mitico Terminator di J. Cameron. La sua figura è nobilitata dalla caparbietà con cui rimane attaccata alla vita, all’amore, al dovere, alla ricerca scientifica e alla conoscenza. La famosa scena dell’operazione chirurgica, che ha impressionato tanti spettatori al punto da richiederne il ricovero in ospedale, ci è parsa grottesca, con la malcapitata costretta ad espellere dalla pancia un totano. Si riscatterà dal ridicolo partendo in direzione del pianeta alieno, per un viaggio senza ritorno in bocca a coloro che la vogliono morta, così come vogliono morti tutti gli abitanti della Terra. Il suo percorso vuole dare risposte a quelle che sono le domande dell’umanità, quelle che ciascuno di noi porrebbe al proprio creatore se lo incontrasse: perché mi hai voluto e perché ora mi distruggi? Ridley Scott è qui alle prese con la paura della morte, incarnata anche dalla figura (anche quella scontata) del vecchio scienziato, la partenza finale di Elisabeth Shaw è una specie di trapasso, un viaggio nell’al di là.
Molte parti della storia non sono coerenti né sviluppate. La presenza in sceneggiatura di uno degli autori di Lost, fa sì che, come nella famosa serie, molti spunti finiscano nel nulla, in vicoli ciechi che lasciano a bocca asciutta gli spettatori.
Concludiamo con quella che ci sembra la frase più azzeccata del film: “Vi costruiscono molto simili a noi”, afferma uno dei protagonisti umani rivolto all’androide David, “speriamo non troppo”, risponde il robot.



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